mercoledì 29 luglio 2009

Orange juice


1.
"Buongiorno, Emily. Hai dormito bene?"
Sulla tovaglia a quadri ci sono già pane tostato, burro, marmellata e tre tazze di caffè.
Prendo dal sacchetto dieci arance e le allineo sulla credenza, accanto allo spermiagrumi e ai
cinque bicchieri.
Ieri pomeriggio me ne stavo, spalle al muro, nel mio angolo dell'aula di pittura. Da lì posso
vedere chiunque entri o esca, il che spesso mi distrae, ma è sempre meglio di dare le spalle
a tutti, sentirsi osservata e non sapere da chi. Un po' di carminio, del bruno Van Dijk,
tentavo di rifare una pennellata à la Rubens; ed ecco il prof. Stiller, il mio tutor. Certi giorni
non c'è verso di lavorare; in ogni modo, meglio lui che un altro. Sembrava contento.
Arriva, mi parla dei corsi estivi alla scuola di grafica di Venezia, di una borsa di studio, dei
miei lavori dello scorso semestre... Non lo seguo, perché vuole che li presenti? Sono solo
compiti, magari ben fatti, ma niente di originale. E lui, tutto eccitato, "Non mi sono
spiegato! Ho già proposto i tuoi lavori, e oggi la Fondazione ha pubblicato i risultati delle
selezioni. Non sei contenta?". Contenta, di cosa? A quanto pare, hanno già deciso tutto: la
borsa copre vitto, alloggio e frequenza ai corsi, la scuola mi fa un prestito per pagare il
viaggio, da restituire più avanti, dopo il diploma... Ma perché nessuno chiede il mio
parere?
Prendo la prima arancia a sinistra, la taglio; ne spremo metà, quindi l'altra metà, poi
appoggio le bucce a destra, in fondo alla fila. Seconda arancia, un bicchiere è pronto; lo
appoggio sul vassoio e riprendo il coltello.
Stiller dà per scontato che sia una splendida notizia; e, certo, è un'opportunità unica.
Qualunque studente d'arte vorrebbe essere al mio posto... ma il mio stomaco si rifiuta di
collaborare. Da ieri sera ho la nausea. Venezia... San Marco! Cinque cupole su pianta a
croce greca, le mura ricoperte di marmi razziati durante le Crociate, le porte di bronzo, i
cavalli. Il mosaico con il corpo del santo, gli intrecci di pietra in stile moresco, il pastore
scolpito ad immagine di Ercole. Uno stratificarsi di arti, di stili e di culture fuse l'una
nell'altra in un'opera di bellezza miracolosa, una sfavillante enciclopedia del Cristianesimo.
Terza arancia, spremiagrumi, bicchiere, quarta arancia. A Venezia starò bene. Perché non
dovrei? Non sarò sola, magari verrà anche Stiller, non glie l'ho chiesto. Ero stordita. Ieri
sera, alla bottega di Mr Fiorelli, ho urtato una pila di cassette e l'insalata è finita a terra, e
anche il mio sacchetto di arance. Oggi è fine mese, devo ricordarmi di chiedergli il conto.
Quinta arancia; sesta. Passeggio con gli occhi socchiusi sulla riva, carpisco il segreto del
riverbero della luce sull'acqua. Anche la mamma, a cena, era tutta entusiasta. Prima
pensava che avessero selezionato i miei lavori per una mostra. Mamma, non è una mostra.
E' una borsa di studi.
"Ma stai per diplomarti... Studierai ancora, Emily? Forse alla tua età sarebbe ora di..."
No, mamma. Aspetta. E' una borsa di specializzazione, ma breve. A Venezia.
Silenzio. Mamma sgrana gli occhi:
"...Venezia!!!?! Ragazzi, venite! James... Venezia! Che bello Emily, che splendida notizia!
James vieni a sentire! Harry, Ernest, la cena! Ragazzi!!!"
Poi mi dà un bacio dei suoi, che si sente lo schiocco fino in camera, e se ne va ridendo. A
volte fa così; se ce l'avessi anch'io, il suo buon umore...
Altre due arance e ho finito. Io invece sono stanca, ho passato la notte a rigirarmi nel letto.
Destra: la tenda blu scuro che ondeggia nella penombra, qualche luce e rumori dalla strada.
Un semestre è lungo... non ho mai messo piede su un aereo... a Venezia ci sarà un
aeroporto? O dovrò prendere la nave? Sinistra: altra luce che filtra sotto la porta bianca, la
scrivania lo scaffale la sedia, bianchi. Tiziano, la luce dell'inizio, le pennellate lunghe e
nervose degli ultimi anni. Le quarantatré tele di Tintoretto alla Scuola di San Rocco. Le
ombre degli affreschi di Giorgione sui muri esterni dei palazzi. Ho letto da qualche parte
che non si è mai stati a Venezia se non ci si arriva dal mare; dunque, andrò in nave.
Ultimo bicchiere. Raccolgo le bucce e le getto tutte insieme nel bidone. Svito lo
spremiagrumi, lo lavo, bagno lo straccio sotto il rubinetto, lo passo sulla credenza. Sollevo
il vassoio, mi giro, lo appoggio sul tavolo.
"...hai dormito bene?"
Incrocio lo sguardo di mia madre, le sorrido.
"Si".
2.
Ci siamo, si parte.
Mamma, con il vestito scollato a fiori rosa e verdi, oggi è un po' nervosa anche lei, sorride e
parla a voce alta. Uscendo di casa se n'è accorta, che stavo zitta più del solito, e che non mi
sono voltata indietro a guardare. Starò via sei mesi, non è poi tanto. Però, che rabbia, in
queste settimane ho lavorato così male! Venti risposte sbagliate al test finale di Arts
History, io!!! E la copia da Rubens, nemmeno al primo anno mi sarebbe riuscita così
posticcia. Poi, volevo riprendere quei ritratti in seppia, si possono migliorare, ora ne sarei
capace, e invece ho perso tutto questo tempo a preparare i bagagli, a correre per negozi, a
preoccuparmi, e ora non ci lavorerò più almeno fino all'anno prossimo, ma chi me l'ha fatto
fare? Perché dovrei andarmene, ho ancora tanto da lavorare, qui, piuttosto sarebbe il
momento di trovare uno studio tutto per me, e cominciare a fare sul serio...
Arrivati all'aeroporto, James è stato gentile, ha controllato sul giornale le previsioni del
tempo, mi ha portato il bagaglio. Hanno chiamato il mio volo, imbarco immediato. Con la
mano in tasca, accarezzo un'arancia lucida e rotonda; la mangerò più tardi.
3.
Chi non ricorda la prima volta che ha visto l'isola che non c'è? Quando da piccolo,
premendo forte le mani sugli occhi, si è detto: "Se riesco a restare fermo immobile, senza
dire niente, se non sento nessun rumore e non ho paura, allora..." Allora, le chiazze di luce
iniziano a colorarsi e prendono forme mutevoli di nuvole, e i sogni diventano realtà.
L'aereo attraversa l'ultimo strato di nubi, macchie di azzurro e di verde emergono dalla
foschia, diventano più nitide, fino a quando nel mezzo della tavolozza lagunare compare il
mosaico di isole che compongono il pesce: Venezia.
Il bagaglio è pesante, vedo solo i miei piedi che ad ogni passo toccano quasi le minuscole
rotelline del trolley davanti a me. Appoggio lo zaino, prendo fiato, respiro una brezza
satura di sale e di polline. Dal motoscafo, la distesa d'acqua e isole pare un deserto, un
nulla, fatto apposta per perdersi; e quell'isola spettrale e selvaggia, più grande delle altre,
fitta di alberi soffocati dall'edera, senza alcun edificio... sembra la negazione dell'idea di
Venezia. Chissà se a Venezia ci sono degli alberi.
Ho sempre pensato a calli e campielli sospesi in un silenzio irreale, come se fossero
popolati solo da nobili settecenteschi e servette da commedia. Invece, ora che sono scesa a
terra -si dirà così?- e tento di orientarmi con la mappa, i miei occhi stentano ad abituarsi
alla nuova luce; sono nuovi il profilo degli edifici, i percorsi mai rettilinei che i miei piedi
imparano poco a poco a percorrere, nuovi gli sguardi delle persone che incrocio, che
guardano e si lasciano guardare. E del tutto inattesi, per me, sono la folla e il rumore, che
aumentano passo dopo passo. Un gruppo di giapponesi mi inghiotte, seguono una ragazza
bionda dai grandi occhi chiari, che parla con un improbabile accento stridulo da orientale.
Tento di svincolarmi dall'onda, e mi ritrovo in una marea di donne d'ogni foggia e d'ogni
taglia, che trascinano borse voluminose o pratici carretti. Questa volta non oppongo
resistenza, mi lascio trasportare e mi trovo al mercato della frutta di Rialto: una distesa di
banchi carichi di ogni genere di ortaggio e vegetale, e dietro ogni banco i venditori che
richiamano ad alta voce le clienti:
"Bella merce, via, andiamo donne!"
Parlano veloce, capisco appena.
Il selciato è umido e disseminato di foglie e di resti di frutta sbocconcellata; a tratti
qualcuno fa pulizia spruzzando il terreno con tubi di gomma verde, attaccati chi sa dove. Il
vociare è continuo. Sui banconi si alzano piramidi di mele, incorniciate da luccicanti
confezioni di frutta candita - albicocche, e poi mango, papaya e magnifici pezzi di zenzero
zuccherato. Fette di cocco sbucciate attendono sotto l'acqua di una fontanella. Pendono
dall'alto caschi interi di banane.
Altri banchi espongono soprattutto verdura, cuori di lattuga verde chiaro brillante, rucola
verde scuro, cipolle bianche grandi oppure rosse, più minute, patate rosse e gialle di
Sant'Erasmo, e poi zucchine allineate nelle cassette, montagne di fagiolini, e ancora
melanzane, sedani e carote. Spero di ricordare sempre questa tavolozza brillante, e le ceste
piene di pomodori maturi. Pomodori da insalata, tondeggianti, grandi, sodi, di colore rosato
e verde, a spicchi poco marcati. Pomodori nostrani. Pomodori cavallino, lunghi e irregolari.
Pomodori siciliani. Pomodori a grappolo, pomodori piccadilly. Pomodori cuore di bue,
molto grandi, a spicchi sottili. Pomodori cirio, ciliegino, datterino, tutti rosso brillante e
perfettamente rotondi, suddivisi per diametro, come perline passate al setaccio.
Le tende verdi stese tra i banchi di frutta non bastano a proteggermi dal sole di luglio, vedo
tutto girare, troppo veloce, troppo rumoroso. Vedo attraccare una gondola; non ha i velluti
né ori, è una lunga pennellata nera attraverso il Canal Grande. Scendono svelte altre
signore, portano borse, passeggini, carrelli e si muovono sicure sulle strette passerelle di
legno. Finalmente, vicino alla riva, vedo un banco ordinato e composto, piccolo,
sorvegliato da un uomo silenzioso, intento a ripulire dei carciofi. E finalmente, fuori
stagione, anche delle arance.
4.
I primi giorni a Venezia sono stati frenetici; e conoscere Andrea, il mio tutor italiano, mi ha
fatto venire nostalgia: com'era elegante Mr Stiller, longilineo pallido allampanato, capace
con brevi cenni di rendere partecipi anche noi studenti della magia impalpabile
dell'immateriale, coinvolgerci nel mistero dell'arte che nasce dalla sostanza pittorica.
Andrea: basso, tarchiato, completamente calvo, ride troppo. Sembra entusiasta; ma di cosa?
Nel primo quarto d'ora si è già preso confidenze che Stiller non si permetterebbe mai: ha
chiesto dettagli delle nostre vite private, verificato lo stato delle unghie di alcuni, ha perfino
espresso apprezzamenti su un paio delle ragazze presenti, tra gli schiamazzi e le risate
generali. Dovrò cavarmela da sola.
Sono ancora spaesata, ma somiglio sempre meno a una turista. Con il passare delle
settimane ho capito che a Venezia il pittoresco è sempre in agguato. Tutto sembra poetico.
Tutto rischia di diventare cartolina. I gabbiani si aggirano con affettata indifferenza,
afferrano voraci tutti gli avanzi, fanno pulizia. Pescatori giovani e vecchi si affaccendano a
scaricare casse di pesce, tra le urla minacciose di chi, nei barconi vicini, attende il proprio
turno. Turisti mattinieri vagabondano per le calli; ragazzine magre, sedute su uno scalino a
scrivere, indossano gonnelline da poco e gioielli di legno colorato; studenti di pittura come
me, disegnano. Tutti a cercare di cogliere il segreto, e portarne qualcosa con sé.
Sto imparando l'italiano. Mi aggiro per il mercato del pesce e ripeto tra me i nomi delle
merci, scritti a penna su umidi pezzi di carta. Rombo dorato. Verdesche fresche. Canocce
piene. Scampi grossi freschi da crudo. Cappesante vive con corallo. Branzini selvaggi
pescati. Fólpi, bòvoi, déntici. Un'enorme testa di pesce spada mi osserva con stupore, il
rostro proiettato verso l'alto. Percorro con lo sguardo le file di sarde e di spigole, osservo
gli sforzi vani di gamberi e aragoste per liberarsi dei legacci che ne immobilizzano le chele.
Ascolto le grida dei venditori che incessanti mi invitano a comprare; poi, al mercato della
frutta, sempre allo stesso bancone, acquisto un’arancia, una sola. La sbuccerò nel
pomeriggio, prima di mettermi al lavoro.
5.
Col tempo sono riuscita, come a Boston, a conquistarmi un posto tranquillo, in fondo alla
sala comune, spalle al muro. Gli altri studenti non ci sono, qualcuno è ancora a pranzo, altri
bevono un caffè prima di riprendere il lavoro. Osservo le tele dei miei compagni. Studio la
luce ormai grigia, autunnale, dietro le vetrate. Abbottono il camice. Controllo che i pennelli
siano allineati; uno si è spostato, lo sistemo. Lavoro molto, mi impegno; i professori mi
apprezzano, qualche gallerista ha alzato un sopracciglio davanti ai miei lavori, mi accorgo
anch’io dei miei progressi. Ma sono ancora semplici esercizi, presto i nodi verranno al
pettine.
Molti dei miei compagni sono a buon punto con l'opera di fine corso, ne parlano, si
confrontano; mentre io continuo a non avere alcuna idea su cosa presentare. Sono
preoccupata. Anche la notte scorsa ho dormito male. Vorrei cancellare i pensieri, intanto mi
scosto dalla fronte una ciocca di capelli. Pennello, colore, un passo indietro per osservare la
tela, traccio qualche segno; non sono convinta. Cerco la mia solita arancia, ormai
sbucciarne una prima del lavoro è diventata un'abitudine, mi aiuta a concentrarmi. Ma oggi
va tutto storto, l'ho dimenticata.
Esco stizzita e mi avvio al mercato, so già che a quest'ora non troverò niente. Ascolto sul
selciato il ritmo del mio passo che con i mesi è diventato svelto, regolare, veneziano.
Lascio correre anche i pensieri, fino a quando non penso più, lascio che le immagini si
svolgano da sé, assisto allo spettacolo della città non più smaltata dal riverbero estivo, ma
resa vaga da un principio di nebbia, dall'umidità sospesa che sfuma i contorni. E a un tratto,
nella luce sbiadita, ecco un'immagine che emerge e si definisce, netta, brillante. L’arancia.
La mia solita arancia. Ma certo!
Devo trovare subito due tele. Tre. Tre tele piccole. Corri, Emily! Il negozio di colori è
dietro l’angolo. Ho dimenticato di togliere il camice, ma non importa, torno subito. E’
chiuso!! Riapre alle cinque, troppo tardi, non posso aspettare. Devo trovare Andrea. Per
fortuna adesso ci capiamo un po’ meglio. Cerco nel laboratorio, nell'aula professori, negli
uffici; Andrea non è in mensa, non è nel cortile.
"Un quarto d'ora fa era alla Cantina... forse lo trovi ancora."
Mi dimentico di ringraziare e corro verso il bacaro. Lo vedo già dall'esterno, il profilo
ritagliato nel rettangolo luminoso della porta sul retro; è seduto a un tavolino di legno
scuro, su cui si affollano piattini vuoti, tovaglioli di carta bisunti, dozzinali bicchieri di
vetro e brocche di varie misure.
"Ho bisogno di sette tele quadrate."
Andrea ride ancora dell'ultima battuta di un collega; sta mangiando un crostino al baccalà e
beve vino. Rosso.
"Andrea... ho bisogno di sette tele. Adesso"
Mi guarda sorridendo, annuisce e volta di nuovo lo sguardo verso i colleghi. Ma allora non
capisce! Ho un moto di impazienza, lo prendo per una manica:
"Andrea! Ascoltami. Ho bisogno di sette tele quadrate, piccole. Tutte uguali. Ne ho
bisogno subito!!"
Finalmente sembra aver colto l'urgenza. Si è alzato, mi segue fino alla porta, usciamo. E’
curioso, mi osserva mentre avanziamo insieme a grandi falcate verso la scuola, lui col
pensiero ancora al pranzo lasciato a metà; ma ora non ho tempo di spiegare.
A scuola, il custode non c'è; sarà a pranzo anche lui. Andrea si affaccia nella guardiola,
cerca tra i mazzi di chiavi appesi al muro, ne prende uno, quindi attraversiamo il cortile sul
retro, proviamo alcune chiavi e finalmente la porticina si apre, possiamo entrare. Il
magazzino è piccolo e chiuso da tempo; cerchiamo al buio fra lavori di studenti ormai
adulti, attrezzi pesanti da scultore, cavalletti rotti, capitelli in pietra, grandi fogli di cartone
arrotolati, tutto appiccicoso di polvere e umidità; troviamo anche alcune tele inutilizzate,
ma sono troppo grandi, troppo vecchie, i telai deformati dall'acqua e incrostati di sale.
Scaviamo ancora e finalmente, sopra uno scaffale, ecco quello che ci vuole: tele quadrate,
candide e intatte. Esco nel cortile, ne verifico meglio lo stato, le conto. Ci sono tutte! Rido,
abbraccio Andrea, ma che mi prende oggi? Lo lascio a chiudere e riordinare, e corro verso
il laboratorio con il mio preziosissimo bottino.
6.
Oggi pomeriggio, l'appuntamento è alla Giudecca. Soffitto basso, odore di solvente,
cavalletti, tele, foto appuntate al muro. Alcuni colleghi sono già arrivati e armeggiano
intorno alle proprie opere; pochi ridono, qualcuno parla brevemente con i compagni. La
tensione ha contagiato tutti. Ecco le mie scatole, un barcone le ha portate questa mattina
con i lavori degli altri; mi sono assicurata mille volte che le tele fossero ben protette, che
l'acqua e gli scossoni non potessero fare danni, ma mentre tolgo il pluribol mi sudano le
mani.
Per settimane ho lavorato con frenesia. Ho interrotto le visite a musei e gallerie, ho ottenuto
il permesso di accedere al laboratorio anche di sera e la domenica, quando la scuola è
chiusa. Ho anche saltato alcune lezioni. Ma, passata la febbre creativa, sono tornata la
stessa di sempre; e ora che si tratta di parlare in pubblico, di mostrare la mia opera, di
illustrarne il senso e il valore, sono di nuovo nel panico. Nell'aula dove si svolgerà la
presentazione, il cranio gotico di Andrea sorge in tutto il suo splendore, e il suo abbraccio
da facchino mi accoglie con affetto. Tra il pubblico siedono amici, qualche genitore venuto
da lontano, i docenti, alcune signore veneziane troppo agghindate, un paio di giornalisti. Il
direttore dà il benvenuto, quindi Andrea proietta sul muro i propri video: Andrea in primo
piano, truccato da clown, fuma un enorme joint; Andrea sotto la doccia, che canta un brano
d'opera; Andrea distrugge un divano a calci e pugni; due energumeni vestiti di bianco
tentano di infilare Andrea, nudo, in un congelatore; Andrea introduce un incontro di boxe
con tre pugili. Andrea si gratta la testa.
Dopo un lungo silenzio e alcune domande, tocca a noi. I miei colleghi sfilano uno dopo
l'altro, chi imbarazzato chi istrionico, raccolgono la dose giusta di applausi e di
incoraggiamenti, tornano a sedersi tra le pacche sulle spalle e le gomitate degli amici. E
arriva il mio turno. Ho i capelli raccolti, una lunga gonna nera, il giacchino beige. Tutto in
ordine. Salgo gli scalini a passetti veloci, guardando fisso verso un angolo della pedana. Un
insegnante mi passa le tele, coperte; Andrea mi aiuta ad appenderle al fondale. Proviamo ad
allinearle, ma il risultato è pessimo. Rinuncio. Valuto l'effetto, e mi viene da piangere, ma
raddrizzo il collo e la schiena, prendo fiato, mi giro. Le luci dei faretti mi accecano, non
vedo il pubblico; dopo tutto, è quasi come essere sola.
"Mi chiamo Emily Mc Even, vengo da Boston. Il lavoro che presento oggi consiste in una
serie di nature morte molto tradizionali, dipinte a olio; deve molto anche all'insegnamento
del mio tutor italiano. Ho voluto girare un video con i pennelli; e il soggetto è qualcosa che
mi ha aiutata, in questi mesi a Venezia, a governare la mia paura"
Forse tutti hanno paura; ma io ne ho molta. Me ne sono difesa come ho potuto: la routine
mi ha sempre rassicurata, e all'idea di venire a Venezia, la mia prima reazione è stata di
panico. Avrei dovuto allontanarmi dalla mia famiglia, dalla scuola, dalla sicurezza del
giudizio dei miei insegnanti. Panico è stato a lungo; fino a quando ho intuito che, forse,
avrei potuto portare con me una piccola abitudine, qualcosa in grado di assumere in sé il
significato di ogni altra certezza.
Tolgo il lenzuolo, svelo le sette piccole tele quadrate.
Sulla prima, appoggiata su una tovaglia bianca e ritagliata su uno sfondo indefinito color
sabbia, ecco un'arancia. E' piena, lucida e rotonda; se ne può intuire la buccia spessa, pare
quasi di sentirne il peso. A guardare bene, se ne coglie ogni irregolarità, ogni minimo
avvallamento. E' bella, luminosa, da far venire l'acquolina.
Seconda tela: la buccia dell'arancia è stata incisa, a delimitare degli spicchi regolari. Le
fessure sono sottilissime, quasi completamente chiuse, si notano appena. Un solo spicchio
di buccia si discosta, di poco, dal frutto, e lascia visibile una sorta di ferita sottile, uno
spiraglio da cui si intuisce il biancore spugnoso delle fibre all'interno.
Terza tela: l'arancia è completamente sbucciata, e ancora intera. Troneggia nel mezzo del
fiore composto dagli spicchi di buccia, divaricati fino quasi ad appiattirsi sulla tovaglia. E'
monumentale nella sua simmetria, coperta di filamenti chiari e opachi. Mentre la osservo,
mi sento nuda anch'io, intuisco solo ora di aver dipinto un autoritratto. Non oso controllare
che nessuno se ne sia accorto, devo essere arrossita come nei momenti peggiori.
Quarta tela: la buccia è sempre aperta ed appiattita, ma l'arancia è spezzata. Manca uno
spicchio, e le due mezze arance giacciono una accanto all'altra, ancora quasi simmetriche;
in un punto la pellicola si è aperta e la ferita questa volta è rossa, viva.
Quinta tela: rimane mezza arancia soltanto, appoggiata un po' obliqua sulle bucce
scomposte. Dalla ferita esce una goccia di succo rosso e denso; la tovaglia è macchiata e
disseminata di frammenti di fibre colore del latte, quasi invisibili.
Sesta tela: le bucce sono ormai in disordine, la macchia sulla tovaglia è diventata un alone
rosato. Ci sono ancora due spicchi, di un altro c'è solo un pezzo e se ne vede colare il
succo, una macchia di colore scuro e intenso nel mezzo del piccolo dipinto.
Settima tela: dell'arancia rimane soltanto un mucchietto di bucce. La tovaglia è macchiata
in diversi punti; delle bucce, si intravvede appena il colore vivo all'esterno, e per il resto
tutto è bianco e neutro. Pare tornato il silenzio.
Anche la platea tace, per alcuni secondi. Quindi, qualcuno comincia lentamente a battere le
mani, e scoppia un applauso. Sento i fischi di entusiasmo dei colleghi, è un successo.
Arrossisco, guardo di nuovo verso il basso. Però sono contenta.
7.
L'aereo vola ormai da diverse ore. Dormo un poco, ma è un sonno leggero; e, nel
dormiveglia, sorrido.
"Beve qualcosa?"
Mi riscuoto di soprassalto. La mano corre alla tasca, è vuota. Certo…
"Succo d'arancia"
Scendo dall’aereo, ecco il bagaglio, e l'uscita. Le porte scorrevoli sembrano un sipario, che
si apre su... cosa? Assisterò allo spettacolo della mia famiglia che mi accoglie, o sarò
invece la prima attrice, e loro gli spettatori? Eccoli. Mi hanno vista. Mamma non sta nella
pelle, si fa strada, aggira le corsie, mi viene incontro per prima. James sorride tra sé e la
segue. Ci sono anche i ragazzi; Ernest mi saluta con un cenno e un sorriso, Harry finge di
non avermi ancora vista, o che non gli importi; troppa emozione per lui. E dopo sono
abbracci, occhiate curiose, una domanda in sospeso: sarà sempre Emily, questa giovane
donna che torna a casa? Resterà tutto com'era una volta? Per tutta la sera rimango al centro
di un turbine di domande. Solo dopo cena, finalmente, riesco a riposare; ma sono stanca e
frastornata, stento a prendere sonno. E in un attimo è mattina.
"Emily..."
Mi giro su un lato.
"Emily... sei sveglia?"
Certo mamma che sono sveglia, adesso.
"...hmm..."
"Coraggio, sennò chi mi compra le arance?"
E' il suo modo di farmi sentire di nuovo a casa. Resterei volentieri a letto, ma conosco bene
le regole non scritte della mia famiglia: early to bed and early to rise... Mi alzo lentamente,
faccio la doccia, mi vesto ed esco. Percorro i due isolati che separano il portone di casa
dalla bottega di Mr Fiorelli. Tutto è come sempre ma tutto è nuovo. Sarà la lunga assenza,
che fa sembrare estraneo il mio quartiere. I colori sono più vivi, gli odori più intensi, i
contorni più netti. All’ultimo incrocio, un particolare stonato mi fa rallentare il passo;
controllo l’orologio, sono le nove passate, perché è chiuso? Non c'è nemmeno una cassetta
di ortaggi all'esterno, la serranda è abbassata.
Ancora qualche passo, e riesco a leggere il cartello scritto a penna che avverte: 'Chiuso per
lutto'.

mercoledì 8 luglio 2009

Fuoco!

In un paese, durante una processione, la statua della Madonna viene colpita e distrutta da ripetuti colpi di arma da fuoco. Mentre la gente fugge, intervengono le forze dell'ordine che circondano la casa da dove sono partiti gli spari. In una abitazione di poche stanze c'è il colpevole, Mario, che vive con la moglie e la piccola figlia, atterrita dalle detonazioni, mentre in un angolo giace il corpo inanimato di una persona. Mario passa le sue ore caricando le sue armi, o scrutando dalle finestre i movimenti della polizia e scaricando ogni tanto qualche colpo sulla piazza. Le continue e ripetute esortazioni di un carabiniere del paese sembrano non avere effetto sul giovane, che dà l'impressione di voler resistere a lungo. Alle prime luci della mattina però Mario si decide e, dopo aver ucciso la moglie, affida la bambina ai carabinieri e si arrende.

Questa, laconicamente, la trama di Fuoco! (anche qui) di Gian Vittorio Baldi, film del 1968 recentemente restaurato dalla Cineteca di Bologna e pubblicato con un bel volume di apparato e commento. In un'intervista recente, inclusa nel dvd, Baldi lascia intendere che il film - realizzato in soli 14 giorni di riprese in presa diretta ma pensato, prima, per anni - parli appunto del 1968, dell'esplosione di energie represse e poi giunte a saturazione, della violenza contro la società e le sue istituzioni. Il regista interpreta dunque Fuoco! come film politico.
Certo gli indizi in questo senso sono molti. All'inizio dell'azione, un primo atto di violenza si è già compiuto, diretto verso la famiglia: Mario ha ucciso la suocera, che giace a terra senza poter essere compianta. Quindi, il protagonista si rivolge contro la chiesa, sparando alla statua della madonna in processione - scena esplicita al punto di perdere ogni aspetto simbolico, e da risultare puramente rappresentativa. Infine, ecco la violenza contro lo stato, che prende la forma del silenzio, della non-considerazione.

Ma Fuoco! è anche un film sulla tragedia della violenza, sulla necessità del male. Mario uccide sua moglie; perché lo faccia, non ci è spiegato mai. Le carezze nel sonno, denudarla per vederne un'ultima volta le forme (la schiena sensuale e arcaica, anche in una donna distrutta e abbrutita dalla paura, dalla violenza), avvolgerla in un sudario prima di sparare, non sono gesti d'amore? Mario non avrà forse ucciso per proteggere? E se affida la bambina ai carabinieri, non sarà perché non trova il coraggio di sparare anche a lei? Per un momento sembra sul punto di farlo; ma poi il pianto lo ferma, desiste. Mario è un uomo qualunque, né più buono né più violento di altri, solo per caso si trova all'interno di quell'appartamento e non fuori, tra gli altri. Come tutti, per necessità recita il ruolo che gli è toccato in sorte.
E forse è proprio la sua debolezza nel recitare fino in fondo la sua parte, forse è questa la sua colpa. Non spara alla bambina, non la salva; e decide di pagare il suo debito arrendendosi, e consegnandosi, nudo, al mondo.

L'abbiamo visto qualche sera fa, nel salotto di casa, insolitamente quieto.
Per caso, alla fine, alla tv stava cominciando Un giorno in pretura. Confronto disarmante. Era il 1953, e già veniva ucciso il neorealismo; scomparsi i personaggi, per lasciar posto alle macchiette. Niente più persone, entrano i personaggi, e poi titoli di testa, titoli di coda, nomi degli attori. Star! E germogliano le radici del qualunquismo italiano.

A passare da Fuoco! a Un giorno in pretura, sembrava di fare un percorso al contrario. E viene da chiedersi ora, se ci sia un'alternativa tra il lasciarsi scivolare in una vita in farsa, e l'attendere che la violenza esploda un'altra volta.