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giovedì 14 agosto 2014

Libertà


Grazie, Wired.



I media decidono “perché” ci si uccide. Di Robin Williams e del “discorso” che esorcizza la libertà degli umani

(foto: Getty Images)
(foto: Getty Images)
Decidono alla velocità della luce. Era depresso. Si è ucciso. Ciò che è detto in California, è detto ovunque. La diagnosi avvolge l’universo informativo alla velocità elettrica che porta l’informazione. Eppure, che qualcuno desse la sua versione della tua libertà, è ciò che accadeva quando ci riscaldavamo con i tocchi di legno.
Non è una novità. Ma quando succede per un personaggio che tutti conoscono lo noti ancora di più. Questa forza dei media di dotare l’evento di un senso che entra a far parte dell’evento stesso. Che riconosci come falso, ma non riesci a fermare, come un cattivo odore nell’aria. “Lui si è ucciso perché era depresso”. Ecco che la “realtà” è costruita. E i social media rafforzano lo strato di pregiudizio, solidificano la convinzione planetaria, la rendono inscalfibile pena lo stigma e la condanna del contestatore.
A questo punto i politici possono dare il via al loro delirio. Ed è quasi normale che oggi ci sia chi si chiede se non si debba far qualcosa per “prevenire”. La “camicia di forza” sta sempre nell’inconscio della politica, anche di quella più liberale.
E invece bisognerà gridare con tutta la poca forza che rimane, anche se ci si trova da soli, che loro non hanno in mano una prova, come quando decidono il colpevole di una catastrofe. Bisognerà dirglielo, che il nesso fra depressione e suicidio non è mai sperimentalmente provato, se non nel mondo delle loro statisticuzze manipolate e delle loro teorie di medio raggio. Ripetere che psichiatri e psicologi quando escono dal loro studio ed entrano in uno studio televisivo, in una redazione o in un social network sono funzionari dell’ordine sociale, del “non si deve”, del divieto. Come quelli che, nominati consulente di un giudice, “sanno” già che l’imputato è  colpevole perché in realtà non conoscono la linea di confine fra “consulere” e decidere, tra il diritto e le concezioni del mondo. Non stanno al loro posto. Esondano nelle menti altrui.
La libertà di morire non si identifica qui e subito con la depressione. Il desiderio di non andare più avanti, di scendere dal treno non solo non è un reato – come invece avviene negli ordinamenti più criminali – ma è una idea con una sua dignità e una sua continua presenza lungo tutto il corso della vita. Che dice a tutti noi che la morte è realtà, questo è il crimine che chi la pratica commette. Eppure, come scriveva Vladimir Nabokov, “La culla dondola sull’abisso”. Noi “stiamo per” morire, dal momento dalla nascita. Paura eh? Meglio chiamare lo specialista.
Bisognerà pur smetterla di criminalizzare e medicalizzare tutto ciò che la società non approva moralmente. Il riflesso condizionato che fa scattare la misura repressiva sulla base del disgusto o del terrore dovrà spezzarsi una buona volta. E uno di questi modi sarà legalizzare l’eutanasia e il diritto di morire, per dire di un tema contiguo a quello del suicidio “puro”.
Ma anche quello della buona morte è un recinto stretto. Il desiderio di morire non appartiene solo a chi è in metastasi o a chi – trombe dell’apocalisse, suonate – “era drogato”, a questo punto è un sabba di fantasmi neri. Sciocchi.
Si può voler morire perché si è persa l’unica persona che nel mondo desse a te una ragione di vivere, e non c’è nessuna sanità prescritta nel “riprendersi”. Si può voler morire perché, dopo aver fatto tutto quello che di meglio potevi fare nella vita, senti di aver varcato la linea d’ombra e il pezzo in ombra tu non vuoi percorrerlo – e non c’è ciancia di religioso che tenga. Si può “voler” morire perché così senti.
Morire non è solo il diritto del malato. La morte è una idea non-malata. Non dico sana, solo perché non so cosa sia “sana.” E la parola dei media dovrebbe smetterla di piantare le bandierine della banalità e dell’idiozia di senso sopra ciò che non si spiega. La necessità di chi fa i titoli non può limitare la libertà delle persone. Fino a quando non accade questo, la libertà non esiste, e ogni media equivale all’inquisitore seicentesco, che impone il suo senso con la tortura.

domenica 1 dicembre 2013

Decadenza

Tutto il can-can di questi giorni avrebbe dovuto convincermi che qualcosa stia davvero cambiando, o che addirittura sia cambiato; invece, la parola Decadenza continua ad avere lo stesso significato di quando l'ho incontrata la prima volta, tanto tanto tempo fa.

Facevo la terza elementare, dovevo studiare una pagina dal sussidiario; il capitolo si intitolava Crisi e decadenza dell'Impero Romano. Parlava di come i valori civili e culturali avessero comihciato ad essere messi in discussione, di come il loro rispetto fosse diventato sempre più raro, e di come tutto questo avesse gradualmente ma irrimediabilmente minato una intera civiltà, che in seguito non era più stata in grado di riprendersi e risollevarsi.

In quanto è accaduto di recente non vedo nulla di diverso; e Decadenza continua a significare non tanto la cessazione di un incarico, quanto l'effetto di troppi anni di scelleratezza. 


mercoledì 3 luglio 2013

Violenza

Quello qui sotto è l'ultimo post che compare sul blog http://latteversato.iobloggo.com; poi l'autrice non ha più scritto.
Qualche settimana dopo hanno trovato il suo corpo nel freezer di casa.

Certe volte penso che, quando la questione di genere mi sembrava un argomento insensato, probabilmente sbagliavo.


violenze e violenze
C'è una linea sottile tra il sospetto e la violenza, psicologica intendo.
Va da se che rompere telefoni cellulari o computer faccia parte di una violenza psicologica ben definita anche penalmente.
Ma anche tenere sotto pressione una persona facendole credere di essere controllata non è un'azione che può passare così, senza colpo ferire. Dire a una persona ''ti controllo il telefono e le mail tramite un investigatore'' è una pressione che a lungo andare logora e sfibra chiunque.
Non sentirsi sicuri al telefono, sapere che un ex potrebbe in un futuro incerto scrivere una mail mette in allerta, anche se non si ha nulla da nascondere.
Trovare telecamere in casa messe ''per controllare se qualcuno entra'' potrebbe anche essere lecito, ma se sono in casa mia e nessuno mi ha mai avvertito della loro esistenza la trovo un'intrusione altrettanto fastidiosa rispetto alle precedenti. Andare a cena fuori e sentirsi dire ''ti ho fatta seguire per sapere se quel maniaco del tuo amico ti seguiva'' mi pare un arzigogolio inutile, mi hai fatta seguire? Ma siam pazzi.
Ma c'è un altro grado di violenza. Quella velatamente fisica. Se dico che non ho voglia di rapporti e mi tocchi non una, ma più volte ripetutamente, oltre a darmi un fastidiosissimo senso di repulsione, penso rientri tra le molestie sessuali. Poi mi dici che vuoi essere chiamato amore...

mercoledì 6 marzo 2013

Dignità. Autodeterminazione.

Questo signore nella foto si chiama Marcello.
Si chiamava, perché è morto due giorni fa. Io l'ho saputo oggi.
Marcello Verdica.
Marcello Verdica Costantini, dicono i giornali; e io, questo secondo cognome, lo imparo ora.
Il suo nome e la sua foto erano sui giornali di oggi perché Marcello si è suicidato, e non in un modo qualunque: ha commesso un suicidio assistito.

Marcello è una di quelle persone che ci sono da sempre, amico dei miei genitori da che ho memoria. Era a casa sua che passavo tanti sabati pomeriggio, i grandi a giocare a carte, a parlare, chi lo sa; io e mio fratello in giardino con i gatti, o a fare le capriole sulla sedia a dondolo di bambù, oppure se fuori era brutto a osservare la collezione di pietre in salotto, e gli strani quadri in giro per casa, qualche volta perfino ammessi accanto al garage, nel Laboratorio-dove-si-sviluppano-le-foto.
Marcello. Marcello e Sara.

Non bisogna mica pensare, in realtà, a questo signore qui sopra. Quel Marcello là ha sì e no quarant'anni, trentacinque piuttosto; e la barba sì, ma scura. Un giorno, con i miei genitori, decidono di comprare una barca. Una specie di vasca da bagno in vetroresina, con un motorino fuoribordo da quattro cavalli. Ci salgono, tutti e quattro, prendono il largo. Non sono andati molto lontano perché la vasca da bagno, con i quattro giovani adulti scapestrati, è affondata. Non paghi, hanno comperato un gommone, sempre in comproprietà. Motore da venti cavalli, un Ducati.
Io non so se le cose siano andate proprio come racconto, è passato tanto tempo, io ero bambina e capivo quel che capivo; ma me le ricordo così. Ricordo per esempio che le cose, loro, i grandi -i grandi che conoscevo io- le facevano sul serio. C'era il gommone, e quindi c'erano la Gommonata e i Gommonauti. Era un mondo di favole.

Sono gli anni Settanta: gli uomini hanno quasi tutti i baffi e le basette, qualche volta i capelli lunghi; le donne i capelli li hanno lunghissimi o cortissimi, e quando vanno al mare dimenticano a casa il reggiseno - e le nonne si indignano e dicono "Quella là....".

Dai ricordi riemergono poi nomi di cose e persone. Lidio e la Pro Loco. Giancarlo e i Liberali, e la macchina da scrivere con i caratteri corsivi. La Dora, Mario, i referendum... L'AIED, qualsiasi cosa sia, quante volte l'ho sentita nominare! "Mamma ma perché loro non hanno bambini? "Perché non ne vogliono". Mistero... Capivo vagamente che l'AIED in qualche modo c'entrava; ma come, chi lo sa.

Il gommone successivo, Marcello e Sara l'hanno comprato da soli. Era grandissimo, e ci hanno fatto il giro d'Italia e hanno pubblicato le foto su un giornale. E' il ricordo di una bambina, magari sono andati "solo" fino a Ancona. Forse però sono arrivati fino in Grecia; e se ci sono arrivati, di sicuro ci si sono trovati bene. E ci sono andati di nuovo. E poi una volta hanno deciso di restare là, e allora niente più gatti nel giardino della casa, niente più casa, niente più quadri né foto, né Marcello, né Sara.
Li ho rivisti tempo dopo, Sara era su una carrozzella, avvolta in sciarpe e piumoni, troppi per una stagione tiepida. Poi, lei non l'ho vista più.


Oggi so che non vedrò più nemmeno Marcello; perché ha fatto un'altra delle sue scelte decise, senza ritorno e senza esitazioni. E ora tutti i ricordi si ricompongono in un disegno sensato.

Marcello era ammalato. Aveva un tumore al cavo orale per il quale era stato operato una volta, forse due. L'operazione successiva l'avrebbe lasciato incapace di bere, di mangiare, di parlare, senza peraltro garantire nulla sulle probabilità di continuare a vivere. La sua prospettiva era questa: un periodo forse breve, forse lungo o magari lunghissimo (minuto, dopo minuto, dopo minuto...) di vita, senza poter vivere. Unica certezza la sofferenza fisica, che già c'era; e certamente anche emotiva. Terapia del dolore, dunque: ma anche quella, lasciava intontiti, assenti, non permetteva di vivere. Quindi, ancora una volta, la scelta di autodeterminarsi.


Forse dovrei chiamarlo così, questo post: Autodeterminazione. Forse lo farò.
Ma andrebbero bene anche Coraggio, Coerenza, Diritti...
Scegliere, e permettere agli altri di scegliere per se stessi: questa è la lezione di Marcello.



Marcello si è rivolto a un'associazione in Svizzera, perché in Italia voler morire è reato. Non si può, non si deve. In Italia il calice, per quanto amaro, va bevuto fino in fondo. E' morto in esilio, Marcello, in compagnia di una persona coraggiosa che l'ha sostenuto, l'ha accompagnato fin là, e ha atteso con lui. Non so se questa persona abbia voglia di essere nominata, perciò non lo faccio. Ma l'associazione si chiama Dignitas, e si trova qui.



martedì 5 marzo 2013

Obiettori


domenica 7 ottobre 2012

Dubbio

More about Cattolici
Brian Moore, Cattolici

Futuro prossimo, per Moore che scrive nel 1972: siamo intorno alla fine del XX secolo, Lourdes non è più riconosciuto come luogo di pellegrinaggio, l'abito talare per i sacerdoti è un'opzione fra tante e un Concilio Vaticano IV ha stabilito che il rito della messa non sia un miracolo ma un "pio rituale" con funzioni simboliche, e ha scelto la strada di un ecumenismo estremo, con la contaminazione tra cattolicesimo e buddismo. Su un'isola sperduta dell'Irlanda, un gruppo di monaci continua a dire messa alla maniera tridentina, attirando per questo solo fatto un flusso di pellegrini e, di conseguenza, l'attenzione dei media. La cosa non piace al Vaticano, che invia un giovane prete in carriera di origine irlandese, padre Kinsella, a ricondurre i monaci all'ordine.
La vicenda è scarna: padre Kinsella arriva, con qualche difficoltà, sull'isola; dialoga a più riprese con l'abate; e riparte due giorni più tardi con la promessa di quest'ultimo di un adeguamento del monastero alle ingiunzioni romane.

Dunque, cos'ha questo romanzo di tanto affascinante?

L'isola che fa da scenario alle vicende è un luogo, come dice l'abate stesso, "abbandonato da Dio". Ma lo è davvero? Davvero Dio si trova a Roma e in tutte quelle chiese dove si celebra un rituale ecumenico e ci si prende cura delle comunità? O forse quell'isola non sarebbe meglio descritta come "fuori dal mondo", e dunque più che mai vicina a quello stesso Dio?
Un abate dalla fede vacillante sceglie di obbedire ai suoi superiori; e proprio questa scelta lo spinge ad affrontare il suo dubbio e, dopo molti anni, a pregare nuovamente. Cosa chiederà a Dio? Probabilmente, di capire la fede dei suoi frati; e se valga di più la fedeltà a se stessi e a quanto si giudica vero, o quella alla parola data. Tanto più che quel voto di obbedienza è stato fatto nei confronti di una Chiesa tanto diversa, difficile da riconoscere in questa nuova, aperta ad altre e con altre confusa, Chiesa che per prima mette in discussione i propri dogmi.
Dare ascolto a se stessi, al proprio sentire profondo, alla fede dunque, sembrerebbe la scelta più "moderna", se nella modernità vogliamo vedere un percorso verso l'individualismo. E pure questa nuova Chiesa, aperta più che mai a ogni diversità -al punto di confondersi con altre- questa Chiesa si propone a sua volta come "moderna", accusando i monaci irlandesi di non essersi aggiornati nei riti e nel sentire; ma proprio questa nuova Chiesa, più che mai chiede al proprio interno adeguamento e uniformità. Non ascolto della fede del singolo, ma ordine sociale e obbedienza. In tutto ciò, esiste ancora uno spazio per la coscienza?
Molte le domande che dovrà porsi l'abate, e che siamo costretti a porci noi lettori. Chiesa e fede possono dunque convivere? La Chiesa esiste per i fedeli o per Dio? Deve esistere nel mondo, o fuori dal (pazzo) mondo?

L'escamotage del collocare le vicende in un qualche futuro non ci faccia dimenticare la realtà. L'immaginario Concilio Vaticano IV non fa che amplificare le questioni aperte dal Vaticano II del 1962-65, che ha realmente affrontato le questioni della Chiesa cattolica nel mondo moderno e dell'ecumenismo.
Il romanzo, pubblicato nel 1970 e dunque scritto nel pieno della questione sollevata dall'arcivescovo (poi scomunicato) Marcel Lefebvre, sembra anticipare di qualche anno la rottura tra Roma e il seminario di Ecône. Probabilmente la chiave di lettura politica può svelare qualche movente e qualcuno dei temi di Cattolici, che rimane comunque quasi un breviario delle domande che ogni buon cattolico si trova, o dovrebbe trovarsi, di fronte, nel rapporto quotidiano, politico e di fede, con la propria chiesa.

Se poi qualcuno ne ha tempo e voglia, qui si può vedere il film del 1973 tratto dal romanzo.

martedì 2 agosto 2011

Petrolio, o della Bruttezza. E della Verità.

Fondamentalmente la petroliera era una fabbrica galleggiante, e più che introdurmi a una vita esotica e smargiassa, mi insegnò a vendermi come operaio dell'industria. Adesso ero uno fra milioni, un insetto che sgobbava al fianco di innumerevoli altri insetti, e ogni mansione che eseguivo rientrava nel grande, opprimente sistema del capitalismo americano. Il petrolio era la fonte primaria della ricchezza, la materia grezza che alimentava la macchina del profitto e la teneva in corsa, e io ero soddisfatto di trovarmi dove mi trovavo, ero grato alla sorte di avermi catapultato nel ventre della belva. [...]
La bruttezza era così universale, così profondamente insita nell'accumulo di denaro, e nel potere conferito dal denaro a chi se ne arricchiva - al punto di deturpare il paesaggio, di sconvolgere il mondo naturale - che a denti stretti incominciai  a rispettarla. Vai al fondo delle cose, mi dicevo, e l'aspetto del mondo è questo. Per male che se ne potesse pensare, quella bruttezza era la verità.

[Paul Auster, Sbarcare il lunario]

mercoledì 20 luglio 2011

Precario

Vediamo come apre Wikipedia:


Con il termine precariato si intende l'insieme dei soggetti che vivono una condizione lavorativa che rileva, contemporaneamente, due fattori di insicurezza:
  1. mancanza di continuità del rapporto di lavoro e certezza sul futuro, e
  2. mancanza di un reddito adeguato su cui poter contare per pianificare la propria vita presente e futura.


L'etimologia poi, questa volta non fa che aumentare la tristezza:
lat. precarius da prex, preghiera. Propriamente: ottenuto per preghiera. Che si esercita con permissione, per tolleranza altrui; quindi Che non dura sempre, ma quanto vuole il concedente.

Insomma, siamo nelle mani di dio. Preghiamo, fratelli...

lunedì 11 luglio 2011

Laicità





Dire 'secondo me' è il fondamento della laicità.

[Carlo Flamigni]

martedì 31 maggio 2011

Pietas

"La pietas è la capacità di vincere lasciando che il nemico... muoia per conto suo".
(Giovanni Floris, sull'onda di un evidente entusiasmo)

venerdì 22 aprile 2011

Barbiana

 Lettera aperta al Presidente della Repubblica
                       on. Giorgio Napolitano

                                                        11 Aprile 2011


Signor Presidente,
lei non può certo conoscere i nostri nomi: siamo dei cittadini fra tanti
di quell'unità nazionale che lei rappresenta.
Ma, signor Presidente, siamo anche dei "ragazzi di Barbiana". Benchè
nonni ci portiamo dietro il privilegio e la responsabilità di essere
cresciuti in quella singolare scuola, creata da don Lorenzo Milani, che
si poneva lo scopo di fare di noi dei "cittadini sovrani". Alcuni di noi
hanno anche avuto l'ulteriore privilegio di partecipare alla scrittura
di quella Lettera a una professoressa che da 44 anni mette in
discussione la scuola italiana e scuote tante coscienze non soltanto fra
gli addetti ai lavori.
Il degrado morale e politico che sta investendo l'Italia ci riporta
indietro nel tempo, al giorno in cui un amico, salito a Barbiana, ci
portò il comunicato dei cappellani militari che denigrava gli obiettori
di coscienza. Trovandolo falso e offensivo, don Milani, priore e
maestro, decise di rispondere per insegnarci come si reagisce di fronte
al sopruso. Più tardi, nella Lettera ai giudici, giunse a dire che il
diritto - dovere alla partecipazione deve sapersi spingere fino alla
disobbedienza: “In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non
posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è
d'obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore
le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono
la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste ( cioè
quando avallano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché
siano cambiate”.
Questo invito riecheggia nelle nostre orecchie, perché stiamo assistendo
ad un uso costante della legge per difendere l'interesse di pochi,
addirittura di uno solo, contro l'interesse di tutti. Ci riferiamo
all’attuale Presidente del Consiglio che in nome dei propri guai
giudiziari punta a demolire la magistratura e non si fa scrupolo a
buttare alle ortiche migliaia di processi pur di evitare i suoi.
In una democrazia sana, l'interesse di una sola persona, per quanto
investita di responsabilità pubblica, non potrebbe mai prevalere
sull'interesse collettivo e tutte le sue velleità si infrangerebbero
contro il muro di rettitudine contrapposto dalle istituzioni dello stato
che non cederebbero a compromesso. Ma l'Italia non è più un paese
integro: il Presidente del Consiglio controlla la stragrande maggioranza
dei mezzi radiofonici e televisivi, sia pubblici che privati, e li usa
come portavoce personale contro la magistratura. Ma soprattutto con
varie riforme ha trasformato il Parlamento in un fortino occupato da
cortigiani pronti a fare di tutto per salvaguardare la sua impunità.
Quando l'istituzione principe della rappresentanza popolare si trasforma
in ufficio a difesa del Presidente del Consiglio siamo già molto avanti
nel processo di decomposizione della democrazia e tutti abbiamo
l'obbligo di fare qualcosa per arrestarne l'avanzata.
Come cittadini che possono esercitare solo il potere del voto, sentiamo
di non poter fare molto di più che gridare il nostro sdegno ogni volta
che assistiamo a uno strappo. Per questo ci rivolgiamo a lei, che è il
custode supremo della Costituzione e della dignità del nostro paese, per
chiederle di dire in un suo messaggio, come la Costituzione le consente,
chiare parole di condanna per lo stato di fatto che si è venuto a
creare. Ma soprattutto le chiediamo di fare trionfare la sostanza sopra
la forma, facendo obiezione di coscienza ogni volta che è chiamato a
promulgare leggi che insultano nei fatti lo spirito della Costituzione.
Lungo la storia altri re e altri presidenti si sono trovati di fronte
alla difficile scelta: privilegiare gli obblighi di procedura formale
oppure difendere valori sostanziali. E quando hanno scelto la prima via
si sono resi complici di dittature, guerre, ingiustizie, repressioni,
discriminazioni.
Il rischio che oggi corriamo è lo strangolamento della democrazia, con
gli strumenti stessi della democrazia. Un lento declino verso
l'autoritarismo che al colmo dell'insulto si definisce democratico:
questa è l'eredità che rischiamo di lasciare ai nostri figli. Solo lo
spirito milaniano potrà salvarci, chiedendo ad ognuno di assumersi le
proprie responsabilità anche a costo di infrangere una regola quando il
suo rispetto formale porta a offendere nella sostanza i diritti di
tutti. Signor Presidente, lasci che lo spirito di don Milani interpelli
anche lei.

Nel ringraziarla per averci ascoltati, le porgiamo i più cordiali
saluti

Francesco Gesualdi, Adele Corradi, Nevio Santini, Fabio Fabbiani, Guido
Carotti, Mileno Fabbiani,
Nello Baglioni, Franco Buti, Silvano Salimbeni, Enrico Zagli, Edoardo
Martinelli, Aldo Bozzolini

venerdì 1 aprile 2011

Trenino

Apprendo oggi che Urbino avrà il suo trenino.

Non fraintendiamo: non treno, no... trenino.

Mi chiedo: come può questa città universitaria, che nel 1987 ha lasciato che fosse dismessa l'unica linea ferroviaria che la raggiungeva, non cogliere l'ironia di avere oggi, ventiquattro anni dopo, un trenino? Un trenino su gomma, insomma un furgoncino che traina un rimorchio dondolante, che percorre il centro storico su e giù, avanti e indietro, senza destinazione, così, per divertimento. Come al luna park.

In fondo c'è una coerenza in tutto questo. Perché il centro storico di Urbino, abbandonato ai pochi turisti e agli studenti, svuotato di abitanti e di senso, a un luna park assomiglia già da tempo.
Ci mancava solo il trenino.

mercoledì 2 febbraio 2011

Coriandolizzazione

Questa parola l'ho sentita pronunciare a proposito delle tante, troppe sedi di Università, e dei troppi Atenei aperti in pochi anni. "Coriandolizzazione dell'offerta", ho sentito.
L'ennesima parola superflua.
Però almeno suona bene, evoca atmosfere carnascialesche, non troppo fuori luogo oggi, che all'Università si chiede di vivere d'aria e di amore (amore per il lavoro, preferibilmente precario); a meno che, come un paio di regioni del nord, non si riesca a beneficiare dei fondi extra, a diretta disposizione del Ministro.
Poi, tra cinque o dieci anni, qualcuno ci verrà a dire che anche all'Università il nord trascina il resto d'Italia, che invece è così, coriandolizzata...

martedì 24 agosto 2010

Angoli



Nell’universo c’è un unico angolo che potete essere certi di migliorare e quell’angolo siete voi.

[Aldous Huxley]

mercoledì 8 luglio 2009

Fuoco!

In un paese, durante una processione, la statua della Madonna viene colpita e distrutta da ripetuti colpi di arma da fuoco. Mentre la gente fugge, intervengono le forze dell'ordine che circondano la casa da dove sono partiti gli spari. In una abitazione di poche stanze c'è il colpevole, Mario, che vive con la moglie e la piccola figlia, atterrita dalle detonazioni, mentre in un angolo giace il corpo inanimato di una persona. Mario passa le sue ore caricando le sue armi, o scrutando dalle finestre i movimenti della polizia e scaricando ogni tanto qualche colpo sulla piazza. Le continue e ripetute esortazioni di un carabiniere del paese sembrano non avere effetto sul giovane, che dà l'impressione di voler resistere a lungo. Alle prime luci della mattina però Mario si decide e, dopo aver ucciso la moglie, affida la bambina ai carabinieri e si arrende.

Questa, laconicamente, la trama di Fuoco! (anche qui) di Gian Vittorio Baldi, film del 1968 recentemente restaurato dalla Cineteca di Bologna e pubblicato con un bel volume di apparato e commento. In un'intervista recente, inclusa nel dvd, Baldi lascia intendere che il film - realizzato in soli 14 giorni di riprese in presa diretta ma pensato, prima, per anni - parli appunto del 1968, dell'esplosione di energie represse e poi giunte a saturazione, della violenza contro la società e le sue istituzioni. Il regista interpreta dunque Fuoco! come film politico.
Certo gli indizi in questo senso sono molti. All'inizio dell'azione, un primo atto di violenza si è già compiuto, diretto verso la famiglia: Mario ha ucciso la suocera, che giace a terra senza poter essere compianta. Quindi, il protagonista si rivolge contro la chiesa, sparando alla statua della madonna in processione - scena esplicita al punto di perdere ogni aspetto simbolico, e da risultare puramente rappresentativa. Infine, ecco la violenza contro lo stato, che prende la forma del silenzio, della non-considerazione.

Ma Fuoco! è anche un film sulla tragedia della violenza, sulla necessità del male. Mario uccide sua moglie; perché lo faccia, non ci è spiegato mai. Le carezze nel sonno, denudarla per vederne un'ultima volta le forme (la schiena sensuale e arcaica, anche in una donna distrutta e abbrutita dalla paura, dalla violenza), avvolgerla in un sudario prima di sparare, non sono gesti d'amore? Mario non avrà forse ucciso per proteggere? E se affida la bambina ai carabinieri, non sarà perché non trova il coraggio di sparare anche a lei? Per un momento sembra sul punto di farlo; ma poi il pianto lo ferma, desiste. Mario è un uomo qualunque, né più buono né più violento di altri, solo per caso si trova all'interno di quell'appartamento e non fuori, tra gli altri. Come tutti, per necessità recita il ruolo che gli è toccato in sorte.
E forse è proprio la sua debolezza nel recitare fino in fondo la sua parte, forse è questa la sua colpa. Non spara alla bambina, non la salva; e decide di pagare il suo debito arrendendosi, e consegnandosi, nudo, al mondo.

L'abbiamo visto qualche sera fa, nel salotto di casa, insolitamente quieto.
Per caso, alla fine, alla tv stava cominciando Un giorno in pretura. Confronto disarmante. Era il 1953, e già veniva ucciso il neorealismo; scomparsi i personaggi, per lasciar posto alle macchiette. Niente più persone, entrano i personaggi, e poi titoli di testa, titoli di coda, nomi degli attori. Star! E germogliano le radici del qualunquismo italiano.

A passare da Fuoco! a Un giorno in pretura, sembrava di fare un percorso al contrario. E viene da chiedersi ora, se ci sia un'alternativa tra il lasciarsi scivolare in una vita in farsa, e l'attendere che la violenza esploda un'altra volta.

martedì 30 giugno 2009

Sicurezza...

...e insicurezze. Se n'è parlato qui.

Sinistre rovine

"Ahimé abbiamo questa sinistra che si dovrebbe vergognare di quello che fa e invece è la rovina del Paese".

Chi l'ha detto?
(Un suggerimento: la definizione è di oggi, a commento di una rumorosa manifestazione di disoccupati napoletani).

giovedì 25 giugno 2009

Pùbblico (I have a dream)

Aggettivo.
1. Che concerne, che riguarda la collettività: la pubblica utilità.
2. Che è di tutti: voce pubblica, opinione pubblica.
3. Che è accessibile a tutti, che tutti possono utilizzare: luogo pubblico, locale pubblico.

Sostantivo maschile.
1. Numero indeterminato di persone considerate nel loro complesso e aventi spesso interessi comuni in quanto frequentano uno stesso luogo, assistono a un medesimo spettacolo ecc: il teatro è affollato da un pubblico inquieto.
2. +Comunità, comune, stato.
3. Il settore pubblico dell'economia: la concorrenza tra pubblico e privato.


Pubblico deriva dal latino publicus , che viene da populum. Popolo.
Insomma, noi.
Vuol dire che la cosa pubblica è nostra, di tutti.

Ma allora com'è che, se dico pubblico, l'immagine che mi balena davanti agli occhi è quella di una folla azzurrina e inebetita che applaude a comando, che delega ad altri il proprio stato d'animo, le proprie opinioni, il proprio pensiero? Che fine ha fatto la responsabilità che nasce dal possedere una cosa, la cosa pubblica appunto?
Un pubblico così non è più fatto nemmeno di spettatori: perché lo spectator osserva con attenzione, è imparziale nel raccogliere le informazioni e critico nel rielaborarle; mentre questo pubblico è di bocca buona, si limita a vedere, a prendere atto, e a lasciarsi contare.

Mi piacerebbe che pubblico fosse più aggettivo che sostantivo. Mi piacerebbe che il significato "comunità, comune, stato" non fosse arcaico e in disuso. Mi piacerebbe vedere più teatri pieni di pubblici inquieti, vedere pubblico e privato concorrere, correre insieme verso un solo obiettivo. Possibilmente pubblico, di interesse comune.

martedì 23 giugno 2009

GAS

"I Gruppi di Acquisto Solidali (G.A.S.) nascono da una riflessione sulla necessità di un cambiamento profondo del nostro stile di vita. Come tutte le esperienze di consumo critico, anche questa vuole immettere una «domanda di eticità» nel mercato, per indirizzarlo verso un'economia che metta al centro le persone e le relazioni.": così recita la home page di ReteGas.
Un po' più fredda, ma comunque precisa, la Finanziaria 2008 che li riconosce: "Sono definiti «gruppi di acquisto solidale» i soggetti associativi senza scopo di lucro costituiti al fine di svolgere attività di acquisto collettivo di beni e distribuzione dei medesimi, senza applicazione di alcun ricarico, esclusivamente agli aderenti, con finalità etiche, di solidarietà sociale e di sostenibilità ambientale, in diretta attuazione degli scopi istituzionali e con esclusione di attività di somministrazione e di vendita."

Dopo qualche mese di vita in provincia - da oggi ci proviamo anche noi.

mercoledì 17 giugno 2009

Intercettazioni

Il post di ieri parlava della punta di un iceberg.
Qui, e qui, alcuni interessanti, e preoccupanti, aggiornamenti del dibattito.