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martedì 27 giugno 2017

Eterno

Il sole del pomeriggio scalda ancora e fa sudare.
Due ragazzini di qui, la pelle percorsa da brividi, escono dall'acqua: sono le cinque ed è ora di andare. I capelli corti brillano d'acqua e di sale, i giovani muscoli guizzano sotto la pelle tesa. Tra qualche settimana quella pelle sarà cotta dal sole ma ora è soltanto giugno, la scuola è finita da poco. Si asciugano sommariamente, infilano le magliette sopra i pantaloncini grondanti, prendono i telefoni dallo zaino e avvisano a casa, "Sto arrivando, mamma" con la voce ancora infantile. Salutano gli amici e si avviano, insieme, senza fare la doccia: uno biondo uno moro, uno alto e robusto con la faccia da bambino, l'altro piccolo e scattante ma con l'espressione quasi adulta.

Poco più in là i fratelli maggiori, come a un comando, si alzano insieme dai loro asciugamani oziosi e si lanciano in acqua. Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei. Ciascuno si tuffa e si avvia senza fermarsi ad aspettare il prossimo. Nuotando sfilano accanto all'alta roccia che emerge dal fondo a pochi metri da riva, poi scompaiono alla vista. Gabbiani urlanti, sempre identici e ignari di sé, volano sopra il golfo proiettando ombre enormi sulla parete del castello di Lerici.
I ragazzi ricompaiono oltre gli scogli. Figurine lontane, si arrampicano lenti e metodici come formiche fino a radunarsi su uno stesso spuntone di roccia. Là si fermano. Prendono fiato. Ridono, chi sa, fino a che uno si alza e si sporge. Immagino scenda il silenzio. Le dita dei piedi aggrappate alla roccia, i polmoni che si riempiono, le ginocchia flesse si preparano al salto. E via! Due secondi e mezzo di accelerazione, poi la figura scompare di nuovo ed emergono schizzi alti di schiuma salata. Si lanciano il secondo, il terzo, e già il primo sta risalendo, lento, determinato.
Non so cosa sia a farli decidere, ma a un tratto si fermano sulla roccia su in alto, senza tuffarsi. Passa altro tempo, a un tratto li cerco con lo sguardo e non ci sono più. Li trovo nel mare: nuotano, stanno tornando.

Sempre identici, ignari di sé.

mercoledì 28 settembre 2016

Entomofagia

L'entomofagia (dal greco éntomos, "insetto", e phăgein, "mangiare"), è un regime dietetico che prevede il consumo alimentare di insetti.

La FAO e l'Unione Europea spingono affinché gli insetti entrino nella nostra dieta per ridurre la pressione alimentare che, stando alle previsioni, raggiungerà il culmine nel 2050. 

Gli insetti sono un alimento apprezzato ed affermato in Sudamerica, aree della Cina e dell'Indonesia, Angola e Nuova Guinea. In Europa, il Paese apripista nel campo dell'entomofagia europea è l'Olanda che per primo ha accettato allevamenti di grilli e cavallette per usarli sia come mangime per gli animali sia come alimento da servire alle nostre tavole. Oggi nei supermarket olandesi si trovano barrette di cioccolato e alcuni tipi di insetti e "bugs-organic food" ricavato da insetti come larve della farina, locuste e buffalo worms. 



lunedì 4 maggio 2015

Cimitero di entusiasti

C'est moi.

martedì 29 maggio 2012

Epifania


Epifania è una parola molto forte per me, molto radicata, al punto che stento sistematicamente a ricordare il nome di Eveline, e finisco per chiamarla Epiphany. L'alba, la nave che parte, la libertà e la vita vera a un passo: e lei che capisce e sceglie, e rimane a terra.
Un momento di illuminazione che proietta luce e senso sul passato e sul futuro: questa favola bella mi sono lasciata raccontare, nella lettura e nella vita.
[Non ricordavo affatto quale fosse la destinazione della nave; leggo ora che partiva per Buenos Aires, e credo sia un dettaglio che non dimenticherò facilmente].
Ma nemmeno questo ci concede, il nostro: nemmeno di credere ancora in Joyce.
Implacabile, implacabile.
"In realtà, le epifanie autentiche sono estremamente rare. Nella vita adulta contemporanea, maturazione e acquiescenza verso la realtà sono processi graduali, incrementali e spesso impercettibili, non dissimili dalla formazione di un calcolo renale".
Nientemeno!!
"Di solito è soltanto nelle rappresentazioni teatrali, nell'iconografia religiosa, e nel <> dei bambini che il frutto dell'intuizione è compreso in unico lampo accecante".
Ma allora com'è che leggere queste righe, proprio in "un unico lampo accecante" ha messo in discussione anni di letture e riletture?
DFW dice, e nel dire contraddice; e mi lascia tanto, tanto, tanto stanca...



[leggendo David Foster Wallace, Brevi interviste con uomini schifosi]

martedì 14 febbraio 2012

Esistenza

More about La nausea
La Nausea: diario di ventitré giorni d’inverno, dal 30 gennaio al 21 febbraio del 1932. Giusto ottant’anni fa. In questi giorni, Roquentin-Sartre sente la sua inquietudine prendere forma, e scopre la Nausea. Tutto quel che segue è un tentativo affannoso e vano di cogliere la natura della Nausea, prima, e poi di sconfessare l’evidenza di quanto in realtà gli è chiaro fin dall’inizio. Consapevole da subito della sovrabbondanza e dell’ottusità fine a se stessa di ciò che esiste, Roquentin cerca in ogni modo qualcosa che dia torto alla sua intuizione, ovvero l’impossibilità per l’uomo di sollevarsi al di sopra dell’esistente e di dargli un senso.
Tenta dapprima, ingenuamente, di trovare un barlume di umanità nel suo stesso volto, che tuttavia gli appare muto come una carta geologica, inumano. Cerca un appiglio nelle parole, e pure è conscio che quest’ultime, nel descriverla, immediatamente congelano la realtà e ne fanno qualcosa d'altro; sa da subito che l'esistenza resterà sempre più ottusa e più forte di qualsiasi sua razionalizzazione. Si aggira quindi confuso in una “folla tragica” incapace di sfuggire al proprio destino; e il fatto di averne consapevolezza gli permette di cogliere la “sensazione di fatalità”, ma lo lascia costretto in un’uguale impossibilità di scelta, forzato nello stesso ‘tragico’ stato di esistente. In pieno carnevale, tempo di rovesciamenti necessari alla ricostituzione dell’ordine, prova qualcosa che “è come la Nausea e tuttavia è esattamente l’opposto: finalmente [gli] capita un’avventura”; ma anche questa (che pure non ci è dato di sapere in che cosa consista) giungerà a termine, e lascerà tutto esattamente immutato. Roquentin spera quindi nel potere della volontà (“Immagino sia per pigrizia che il mondo si rassomiglia tutti i giorni. Oggi aveva l’aria di voler cambiare. E allora tutto, tutto poteva succedere”) e dell’iconografia di una galleria di ritratti di nullità che non hanno inciso né lasciato traccia.
Trova a volte rifugio e sollievo nella biblioteca, che è ricordo di ciò che è stato, è memoria; ma spesso ne deve fuggire perché anche là sente incombere la mancanza di senso. Ed è proprio in biblioteca, dopo la decisione di abbandonare la ricerca storica, che Antoine perde una battaglia cruciale: “Ho voglia di alzarmi, di fare una cosa qualsiasi per stordirmi. Ma se alzo un dito, se non me ne sto assolutamente fermo, so benissimo cosa mi capiterà. E non voglio che mi capiti ancora. Tornerà sempre anche troppo presto. […] Soprattutto non muoversi, non muoversi… Ah! / Questo movimento delle spalle, non ho potuto trattenerlo. /  La Cosa, che aspettava, s’è svegliata, mi s’è sciolta addosso, cola dentro di me, ne son pieno… […] L’esistenza liberata, svincolata, rifluisce in me. Esisto. / Esisto. E’ dolce, dolcissimo, lentissimo”.
Roquentin non riesce più ad opporre resistenza, è tentato dall’abbandonarsi all’animalità dell’esistere, ne sente la lusinga; ma allo stesso tempo ne è atterrito. Non sa smettere di pensare, non sa smettere di esistere, sente di esistere suo malgrado e tenta un’impossibile fuga. “I pensieri, non c’è niente di più insipido. Ancora più insipido della carne.  […] Esisto perché penso… e non posso impedirmi di pensare […] sono perché penso, e perché penso?”. Esce, Antoine, lascia la biblioteca e si getta fuori. “Come esistono forte oggi le cose!” E’ oltre la Nausea e, colto dal panico di non poter sfuggire al mondo e a se stesso, trova in una notizia “Sensazionale” un ultimo disperato appiglio: lo stupro, tentativo estremo di salvezza. Di più: lo stupro di una bambina. Roquentin si perde in un desiderio lordo e violento, si sporca con i dettagli più sordidi, le dita della piccola contratte nel fango, e l’evocazione delle immagini diventa ricordo: “il fango sul mio dito [=pene] che usciva dal rigagnolo fangoso e ricadeva dolcemente, pian piano, s’afflosciava, grattava meno forte le dita della bambina ch’era strangolata […] l’esistenza è molle”. E’ forse Antoine, l’”ignobile individuo”, lo stupratore della “piccola Luciana assalita da dietro, violata dall’esistenza da dietro”? E’ forse questo, ciò che voleva non gli capitasse più? E dopo tutto, se Antoine irrimediabilmente esiste, se nemmeno questo tentativo estremo di strappo all’ottusa ‘molle’ continuità dell’esistenza ha alcun esito, se nemmeno lo stupro di una bambina è sufficiente a far finalmente ‘accadere’ qualcosa, fa forse differenza se, a commetterlo, sia stato un esistente o un altro? Se Antoine è in grado di rivivere, di sentire nella carne ciò che è successo, potrebbe benissimo esserne stato l’autore. Non cambierebbe comunque nulla.
Scrive Antoine: “Niente. Esistito”. Ovvero la crisi, l’urlo del giorno precedente, l’evocazione / memoria della violenza non sono servite, tutto è rimasto uguale a prima, l’esistenza ha avuto ancora una volta il sopravvento. E così, l’indomani, schiaccia la mosca con noncuranza, lui che nello spirito e forse nel corpo ha perpetrato una violenza ben maggiore, e afferma: “L’ho sbarazzata dell’esistenza. […] Le ho reso un servigio”. Alla mosca, alla bambina? Comunque sia, perfino uccidere rimane un atto interno all’esistente.
“E’ dunque questa, la Nausea: quest’accecante evidenza? Quanto mi ci son lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto – il mondo esiste – ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. […] La Nausea […] sono io stesso”:  la guerra è persa, Antoine esiste esattamente con la stessa mostruosa evidenza di una radice di castagno, parte indistinta di un tutto senza senso, di un’esistenza eccessiva e invadente dalla quale non si può sfuggire nemmeno con l’atto volontario di togliersi la vita – resterebbe un cadavere, sangue, ossa, tutto è di troppo - anche questo.
Roquentin esclude il ricorso a qualche trascendenza, perché la Nausea è proprio consapevolezza della gratuità dell’esistente, che esiste senza causa e senza fine, e senza lasciare di sé un ricordo. Avvolto da tanta passività appiccicosa, Antoine ne prova oppressione e, visto vanificarsi ogni tentativo di riscatto, finalmente, noia. Incontrerà Anny, antica amante ormai grassa, molle, “tornata solo per toglier[gli] ogni speranza”. Deciderà di lasciare Bouville, come se ciò potesse fare una qualsiasi differenza. Tanto per fugare ogni dubbio, vedrà in un patetico Autodidatta  incontrato in biblioteca la crassa esistenza corporea sopraffare lo sforzo intellettuale e l’idea politica, vanificandole.
Solo ascoltando e riascoltando il canto del sassofono, Antoine si culla brevemente, fugacemente in qualcosa che, infine, ha una propria completezza, perfino un senso; e coglie infine il desiderio che ha accomunato tutti i suoi tentativi affannosi e all’apparenza slegati: “cacciare l’esistenza fuori di me” e, finalmente, ESSERE. Essere come l’aria di jazz, nata dal pensiero di un uomo qualunque, resa viva dalla voce di una qualunque donna, ma ormai indipendente e autonoma, e perfetta. Peccato, peccato che la musica, al pari di una perfetta figura geometrica, non possa anche ‘esistere’…



lunedì 27 giugno 2011

Educazione

Mattina, le otto suppergiù. Autobus pieno di studenti e impiegati.
Sale un uomo con i capelli bianchi, avrà sessantacinque anni, forse settanta.
Si guarda brevemente intorno, quindi afferra un sostegno, e l'autobus riparte.

Sarebbe 'educazione' alzarsi e lasciare il posto, non è così?
Ma d'altra parte, a cosa siamo stati tutti 'educati'? A restare e apparire giovani, perché la vecchiaia non va nominata né pensata, è offensiva, è brutta e va negata con ogni forza.
Lasciare il posto, dunque?
Ad una donna incinta, si. A chi ha una gamba ingessata, certamente! Con un sorriso umano e comprensivo.
Ma a quest'uomo? Come si può cedergli il posto, ovvero dirgli che è un Vecchio? Che non sta bene, e allora diremo Anziano. Come dire a qualcuno che la sua vita è ormai di nessun conto, che non corrisponde più alla moda, né al buon gusto, e che tutto questo è irrimediabile?
Ci sarebbe voluto un bel coraggio ad alzarsi, guardarlo in viso e dire: "Vuole sedersi?"
Lui, probabilmente, ci sarebbe rimasto male.


Ancora una volta, nell'etimologia una possibile salvezza: educare, e-ducere, condurre fuori. Aiutare le buone inclinazioni ad emergere, manifestarsi. Socraticamente, far uscire dall'uomo il meglio che ha, lasciare che prenda forma la Persona che ancora non siamo pienamente. Capace di alzarsi sorridendo e, forse, un giorno, anche di invecchiare serenamente.

mercoledì 1 aprile 2009

E' ora!

Ora: Ventiquattresima parte del giorno medio.
Ora locale: riferita al meridiano del luogo in cui ci si trova
Ora civile: tempo medio del meridiano centrale del fuso orario dove si trova l'osservatore
Ora solare: calcolata in base al passaggio del Sole sul meridiano centrale del fuso orario
Ora legale: ora media determinata dal governo per ogni nazione
Ora canonica: ciascuna delle ore della giornata destinate dai canoni agli atti liturgici. (est.) il momento opportuno.

A proposito dell'articolo del manifesto del 28 marzo sull'ora di religione... magari a qualcuno può sembrare che si esageri, che i casi citati siano eccezionali. E invece no. Altrimenti non sarebbero successe, anche a noi, tutte le stesse cose.
  1. "Così capita che i docenti rassicurino i dubbiosi dicendo: «Faremo solo canti di pace, non vi preoccupate»." A noi hanno detto che avrebbero insegnato solo i valori universali. In che senso, universali? Creazione, cacciata dall'Eden, la-chiesa-casa-di-Gesù...

  2. "La maestra ha spiegato che c'era un solo bambino musulmano che non si avvaleva. [...] la maestra ha detto che era meglio che la bambina facesse religione per non restare isolata dai compagni. " Così, anche noi. Uguale. Ugualissimo. Con la differenza che abbiamo comunque barrato la casella NO.

  3. "...mio figlio ha fatto religione e anche gli altri che, come lui, non avrebbero dovuto farla. E' successo che nessuna insegnante, compresa quella di religione, si è accorta del fatto che in classe durante l'ora di religione c'erano anche i bambini che avrebbero dovuto essere esentati. Ho scoperto tutto solo alla festa di fine anno, quando l'insegnante mi ha messo in mano il quaderno di religione di mio figlio...". Noi ce ne siamo resi conto la volta che la bimba è arrivata a casa cantando "Io ho un amico che mi ama, il suo nome è gesù".

  4. "Farebbe scandalo e si creerebbe un caso se una scuola organizzasse in modo strutturato l'ora alternativa e desse dei progetti concreti ai genitori. Eppure basterebbe che dicesse: «Per chi non si avvale della Irc, ci sarà un corso di teatro con spettacolo a fine anno, oppure una storia del cinema per bambini o un corso di rime per testi rap». Macché. Cosa si fa? Non si sa! Per una sorta di tacito accordo, l'ora alternativa è un'ora di ciondolamento se non proprio di discriminazione. L'importante è che non sia attrattiva, questo è imperativo per le gerarchie ecclesiastiche. Non deve suscitare interesse nei bimbi che fanno l'ora di religione cattolica. Se fosse un'ora di laboratorio intelligente al momento di dividere la classe qualcuno potrebbe dire: «Pure io voglio fare l'ora alternativa». Questo non deve succedere. Deve valere il contrario. I bimbi che non si avvalgono devono avere qualcosa di meno." Di fronte alla nostra proposta di fare del volontariato, offrendo delle attività strutturate (presentare le figure della mitologia classica, raccontare le avventure di Orlando...) ai bambini che 'non si avvalevano', ci è stato risposto che proporre un'iniziativa interessante avrebbe potuto indurre altri a scegliere di non partecipare all'ora di IRC (Insegnamento della Religione Cattolica). Pertanto... no.

Insomma: è tutto banalmente vero. E allora, forse, è ora, di cambiare.

sabato 31 gennaio 2009

Espiazione

Atonement, film diretto da Joe Wright nel 2007, rivisita piuttosto fedelmente il romanzo di Ian McEwan (2001) da cui è tratto: uguale la suddivisione in quattro movimenti, identiche le ambientazioni, gli stessi personaggi. Ma film e romanzo raccontano davvero la stessa storia?

Entrambi ripercorrono le vicende della scrittrice Briony Tallis a partire da giorno in cui, appena adolescente, si rende conto della propria vocazione, fino al suo settantasettesimo compleanno.
Il primo movimento del film segue quasi pedissequamente il romanzo, se non perché alcuni personaggi rimangono più abbozzati. L'unica differenza rimarchevole è l'uso, da parte della giovane Tallis, di una rumorosa macchina da scrivere, che rende la creazione un atto meno segreto e intimo di quanto fosse nel romanzo: una trovata efficace dal punto di vista della sceneggiatura, ma -come si vedrà- anche un'anticipazione importante.
Nella seconda parte del film compare qualche variazione, soprattutto di ritmo, a prima vista ancora attribuibile ad esigenze di brevità dovute al mezzo cinematografico: il percorso di Robbie Turner verso il mare appare più rapido, e sono tagliate proprio le scene più drammatiche e spettacolari presenti nel testo letterario, primo tra tutti il bombardamento della colonna di militari e civili in fuga, da parte dell'aviazione tedesca. Inoltre, un'immagine fondamentale del romanzo -il cadavere di un bimbo dilaniato da una bomba, incubo che accompagnerà Robbie fino alla fine- è sostituita e come amplificata da quella di un'intera scolaresca sterminata; ma anche qui la scelta è di mostrare un'immagine pulita, dalla compostezza che la rende niente affatto realistica ma quasi astratta.
La terza parte, in cui Briony Tallis diciottenne studia per divenire infermiera, è ormai lontana dal seguire passo a passo il romanzo. Nonostante le vicende si svolgano quasi per intero in ospedale, e in buona parte alle prese con feriti di guerra, la presenza di sangue è ridotta all'indispensabile, e anche momenti drammatici come la morte del giovane panettiere francese sono resi senza insistenza sui dettagli, ma quasi con intensa liricità. Rimane presente la macchina da scrivere, rumorosa e del tutto improbabile in un dormitorio di ragazze tenute ad osservare in modo ferreo le regole più fantasiose, al solo fine di essere abituate all'obbedienza: così, se nel romanzo la penna è sostituita da un mozzicone di matita, nel film il ticchettio echeggia nella notte, e tiene il ritmo dell'esistenza della giovane scrittrice, che pure si trova là per espiare, appunto, la sua stessa esistenza.
A questo punto del film è emerso chiaramente anche un altro intervento di regia, ed è l'attenzione riservata all'acqua e ai suoi significati simbolici. La polarità tra il bagno di Cecilia nella fntana-fonte battesimale, di ristoro nella giornata di gran caldo, e la sete insopportabile di Robbie, separato da lei da cinque anni di carcere e di guerra, è sottolineata e rafforzata da numerosi dettagli del romanzo ai quali il regista lascia spazio, e alle diverse invenzioni che si concede. Il laghetto e la piscina di Villa Tallis sono mostrate, fin dall'inizio, sotto ogni angolazione, così da poter essere rimpianti per tutto il resto della storia, e Wright insiste sull'episodio parallelo al bagno della sorella, narrato in flashback, di Briony bambina che si tuffa per essere salvata. In Francia, il cammino di Robbie prende avvio lungo un canale, la cui quiete ordinaria dovrà a sua volta essere rimpianta nelle scene a seguire. Briony si lava le mani all'ospedale: nel film, non più per richiesta pressante della caposala, ma per una sua necessità di pulizia e di purificazione. E per acqua viene anche la morte dei due amanti: Robbie per setticemia, prosciugato dalla sete; Cecilia -e questa è invenzione del regista- travolta dall'acqua di una tubatura esplosa, a causa di una bomba. Robbie dunque ucciso dalle privazioni, Cecilia annegata nella sua stessa passione.

E si viene così all'epilogo, breve in entrambi i casi, e risolutivo. Briony Tallis, divenuta scrittrice di successo, compie 77 anni e ha ricevuto da poco la notizia di essere affetta da una malattia degenerativa che la priverà della capacità di parlare, poi di capire, quindi di ricordare. Nelle due versioni compare l'incontro tardivo di Briony con Cecilia e Robbie, sopravvissuti alla guerra e finalmente riuniti; e in entrambe il romanzo non è ancora stato pubblicato. Ma a questo punto, romanzo e film si allontanano irreparabilmente.
Il romanzo di McEwan è anche una riflessione sulla scrittura, e il film deve arrestarsi davanti al gioco di rispecchiamento. E se nel libro la pubblicazione-redenzione non è avvenuta per timore di un'innaffrontabile causa da parte del troppo ricco e troppo potente Paul Marshall o della sua giovanile e aggressiva moglie Lola, nel film tutto è dovuto a un dubbio personale della scrittrice.
Nel film, dalla scena finale scompaiono la villa divenuta resort, la famiglia numerosa, i tanti presenti e i troppi assenti; la telecamera si svela nell'allestimento di un'intervista televisiva, con tanto di interruzione su richiesta della scrittrice, che chiede una pausa per riflettere, per ricordare finché può.
Il romanzo si conclude con una nota di mestizia: "Mi piace pensare che non sia debolezza né desiderio di fuga, ma un ultimo gesto di cortesia, una presa di posizione contro la dimenticanza e l'angoscia, permettere ai miei amanti di sopravvivere e vederli uniti alla fine. Ho regalato loro la felicità, ma non sono stata tanto opportunista da consentire che mi perdonassero, non proprio, non ancora. E se avessi il potere di evocare la loro presenza alla mia festa di compleanno... Robbie e Cecilia, ancora vivi, ancora innamorati, seduti accanto in biblioteca, a sorridere delle Disavventure di Arabella? Non è escluso. Ora basta però, devo dormire." La scrittrice indulge nella propria onnipotenza, è giunta alla fine della vita ma lascia ancora una porta aperta alla creazione letteraria, vanificando così la propria espiazione.

E il film? Si ferma poco prima, al regalo della felicità. Uguale l'onnipotenza, mentre il dubbio, il "Non è escluso" è lasciato agli occhi di Vanessa Redgrave; e per descrivere questo, le parole non sono sufficienti.