La Nausea: diario di ventitré giorni d’inverno, dal 30
gennaio al 21 febbraio del 1932. Giusto ottant’anni fa. In questi giorni,
Roquentin-Sartre sente la sua inquietudine prendere forma, e scopre la Nausea.
Tutto quel che segue è un tentativo affannoso e vano di cogliere la natura
della Nausea, prima, e poi di sconfessare l’evidenza di quanto in realtà gli è
chiaro fin dall’inizio. Consapevole da subito della sovrabbondanza e
dell’ottusità fine a se stessa di ciò che esiste, Roquentin cerca in ogni modo
qualcosa che dia torto alla sua intuizione, ovvero l’impossibilità per l’uomo
di sollevarsi al di sopra dell’esistente e di dargli un senso.
Tenta dapprima, ingenuamente, di trovare un barlume di
umanità nel suo stesso volto, che tuttavia
gli appare muto come una carta geologica, inumano. Cerca un appiglio nelle parole, e pure è conscio che
quest’ultime, nel descriverla, immediatamente congelano la realtà e ne fanno
qualcosa d'altro; sa da subito che l'esistenza resterà sempre più ottusa e più
forte di qualsiasi sua razionalizzazione. Si aggira quindi confuso in una
“folla tragica” incapace di sfuggire al proprio destino; e il fatto di averne
consapevolezza gli permette di cogliere la “sensazione di fatalità”, ma lo
lascia costretto in un’uguale impossibilità di scelta, forzato nello stesso
‘tragico’ stato di esistente. In pieno carnevale, tempo di rovesciamenti
necessari alla ricostituzione dell’ordine, prova qualcosa che “è come la Nausea
e tuttavia è esattamente l’opposto: finalmente [gli] capita un’avventura”; ma anche questa (che pure
non ci è dato di sapere in che cosa consista) giungerà a termine, e lascerà
tutto esattamente immutato. Roquentin spera quindi nel potere della volontà (“Immagino sia per pigrizia che
il mondo si rassomiglia tutti i giorni. Oggi aveva l’aria di voler cambiare. E
allora tutto, tutto poteva
succedere”) e dell’iconografia di
una galleria di ritratti di nullità che non hanno inciso né lasciato traccia.
Trova a volte rifugio e sollievo nella biblioteca, che è
ricordo di ciò che è stato, è memoria;
ma spesso ne deve fuggire perché anche là sente incombere la mancanza di senso.
Ed è proprio in biblioteca, dopo la decisione di abbandonare la ricerca storica,
che Antoine perde una battaglia cruciale: “Ho voglia di alzarmi, di fare una
cosa qualsiasi per stordirmi. Ma se alzo un dito, se non me ne sto
assolutamente fermo, so benissimo cosa mi capiterà. E non voglio che mi capiti
ancora. Tornerà sempre anche troppo presto. […] Soprattutto non muoversi, non muoversi… Ah! / Questo movimento
delle spalle, non ho potuto trattenerlo. /
La Cosa, che aspettava, s’è svegliata, mi s’è sciolta addosso, cola
dentro di me, ne son pieno… […] L’esistenza liberata, svincolata, rifluisce in
me. Esisto. / Esisto. E’ dolce, dolcissimo, lentissimo”.
Roquentin non riesce più ad opporre resistenza, è tentato
dall’abbandonarsi all’animalità dell’esistere, ne sente la lusinga; ma allo
stesso tempo ne è atterrito. Non sa smettere di pensare, non sa smettere di
esistere, sente di esistere suo malgrado e tenta un’impossibile fuga. “I pensieri, non c’è niente di più
insipido. Ancora più insipido della carne.
[…] Esisto perché penso… e non posso impedirmi di pensare […] sono
perché penso, e perché penso?”. Esce, Antoine, lascia la biblioteca e si getta
fuori. “Come esistono forte oggi le cose!” E’ oltre la Nausea e, colto dal
panico di non poter sfuggire al mondo e a se stesso, trova in una notizia
“Sensazionale” un ultimo disperato appiglio: lo stupro, tentativo estremo di salvezza. Di più: lo stupro di una
bambina. Roquentin si perde in un desiderio lordo e violento, si sporca con i
dettagli più sordidi, le dita della piccola contratte nel fango, e l’evocazione
delle immagini diventa ricordo: “il fango sul mio dito [=pene] che usciva dal
rigagnolo fangoso e ricadeva dolcemente, pian piano, s’afflosciava, grattava
meno forte le dita della bambina ch’era strangolata […] l’esistenza è molle”.
E’ forse Antoine, l’”ignobile individuo”, lo stupratore della “piccola Luciana
assalita da dietro, violata dall’esistenza da dietro”? E’ forse questo, ciò che
voleva non gli capitasse più? E dopo tutto, se Antoine irrimediabilmente
esiste, se nemmeno questo tentativo estremo di strappo all’ottusa ‘molle’
continuità dell’esistenza ha alcun esito, se nemmeno lo stupro di una bambina è
sufficiente a far finalmente ‘accadere’ qualcosa, fa forse differenza se, a
commetterlo, sia stato un esistente o un altro? Se Antoine è in grado di
rivivere, di sentire nella carne ciò che è successo, potrebbe benissimo esserne
stato l’autore. Non cambierebbe comunque nulla.
Scrive Antoine: “Niente. Esistito”. Ovvero la crisi, l’urlo
del giorno precedente, l’evocazione / memoria della violenza non sono servite,
tutto è rimasto uguale a prima, l’esistenza ha avuto ancora una volta il
sopravvento. E così, l’indomani, schiaccia la mosca con noncuranza, lui che
nello spirito e forse nel corpo ha perpetrato una violenza ben maggiore, e
afferma: “L’ho sbarazzata dell’esistenza. […] Le ho reso un servigio”. Alla
mosca, alla bambina? Comunque sia, perfino uccidere
rimane un atto interno all’esistente.
“E’ dunque questa, la Nausea: quest’accecante evidenza?
Quanto mi ci son lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io
esisto – il mondo esiste – ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è
indifferente. […] La Nausea […] sono io stesso”: la guerra è persa, Antoine esiste esattamente
con la stessa mostruosa evidenza di una radice di castagno, parte indistinta di
un tutto senza senso, di un’esistenza eccessiva e invadente dalla quale non si
può sfuggire nemmeno con l’atto volontario di togliersi la vita – resterebbe un cadavere, sangue, ossa, tutto è
di troppo - anche questo.
Roquentin esclude il ricorso a qualche trascendenza, perché la Nausea è proprio consapevolezza della
gratuità dell’esistente, che esiste senza causa e senza fine, e senza lasciare
di sé un ricordo. Avvolto da tanta passività appiccicosa, Antoine ne prova
oppressione e, visto vanificarsi ogni tentativo di riscatto, finalmente, noia.
Incontrerà Anny, antica amante ormai grassa, molle, “tornata solo per
toglier[gli] ogni speranza”. Deciderà di lasciare Bouville, come se ciò potesse
fare una qualsiasi differenza. Tanto per fugare ogni dubbio, vedrà in un
patetico Autodidatta incontrato in
biblioteca la crassa esistenza corporea sopraffare lo sforzo intellettuale e l’idea
politica, vanificandole.
Solo ascoltando e riascoltando il canto del sassofono,
Antoine si culla brevemente, fugacemente in qualcosa che, infine, ha una
propria completezza, perfino un senso; e coglie infine il desiderio che ha
accomunato tutti i suoi tentativi affannosi e all’apparenza slegati: “cacciare
l’esistenza fuori di me” e, finalmente, ESSERE.
Essere come l’aria di jazz, nata dal pensiero di un uomo qualunque, resa viva
dalla voce di una qualunque donna, ma ormai indipendente e autonoma, e
perfetta. Peccato, peccato che la musica, al pari di una perfetta figura
geometrica, non possa anche ‘esistere’…
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