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martedì 19 settembre 2017

Helsinki: Dimensioni

Helsinki non è grande. Deve ospitare appena 650.000 abitanti, non molti per una capitale europea; e in mezz'ora di treno ci si trova già altrove. A Espoo, per esempio.

I finlandesi, invece, sì: sono grandi. Anche le donne. Nei negozi di scarpe, trovare ballerine taglia 42 è una cosa normale. Sono alti, sono ingombranti.
Però se li tocchi, a volte anche se soltanto li guardi, si imbarazzano e diventano serissimi. Se poi sorridi, vorrebbero sparire o almeno farsi piccoli piccoli.

Quando poi sono piccoli davvero, stanno fuori. I giardini sono pieni di classi dell'asilo, delle elementari delle medie che stanno all'aperto. I ragazzini sono già piccoli guerrieri, con capelli rasati e ciuffi raccolti in alto. I piccolini sembrano puffi: ciascuno con il suo berretto di cotone, con la sua giacchetta fosforescente. Chi vigila li lascia fare. Corrono in gruppi, picchiano rumorosamente con bastoni su tavole e per terra. Uno l'ho visto con la sua minuscola bicicletta senza pedali e il casco, fermo da solo a un semaforo. Avrà avuto tre anni al massimo, ed era pericolosamente vicino alla carreggiata. La mamma è arrivata dopo un po', con il fratellino più piccolo sul monopattino. Senza ansia. 

domenica 2 ottobre 2016

Dirndl

domenica 13 luglio 2014

Disperso

Fino a ieri, disperso era il padre di mio nonno, soldato austriaco della prima guerra mondiale mai tornato dalla Galizia.
Disperso: per sua moglie con tre figli piccoli, aspettare, aspettare, e un giorno dover decidere, a esserne capaci, che non tornerà più. Per mio nonno, che era uno di quei bambini, crescere senza un padre, senza doveri e pure senza diritti.
Ora, disperso è il figlio di quello stesso nonno.
Volava con il parapendio, ed è stato risucchiato da una nuvola (cosí dice il giornale).


Diversa l'attesa, più breve, e finita.

lunedì 31 marzo 2014

Memory and Desire

I. THE BURIAL OF THE DEAD

April is the cruellest month, breeding 
Lilacs out of the dead land, mixing 
Memory and desire, stirring 
Dull roots with spring rain. 
Winter kept us warm, covering  
Earth in forgetful snow, feeding 
A little life with dried tubers. 
Summer surprised us, coming over the Starnbergersee 
With a shower of rain; we stopped in the colonnade, 
And went on in sunlight, into the Hofgarten,
And drank coffee, and talked for an hour. 
"Bin gar keine Russin, stamm’ aus Litauen, echt deutsch."
And when we were children, staying at the archduke’s, 
My cousin’s, he took me out on a sled, 
And I was frightened. He said, Marie,
Marie, hold on tight. And down we went. 
In the mountains, there you feel free. 
I read, much of the night, and go south in the winter. 
 
What are the roots that clutch, what branches grow 
Out of this stony rubbish? Son of man,
You cannot say, or guess, for you know only 
A heap of broken images, where the sun beats, 
And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief, 
And the dry stone no sound of water. Only 
There is shadow under this red rock,
(Come in under the shadow of this red rock), 
And I will show you something different from either 
Your shadow at morning striding behind you 
Or your shadow at evening rising to meet you; 
I will show you fear in a handful of dust.
        "Frisch weht der Wind" 
        "Der Heimat zu," 
        "Mein Irisch Kind," 
        "Wo weilest du?" 
“You gave me hyacinths first a year ago;
They called me the hyacinth girl.” 
—Yet when we came back, late, from the Hyacinth garden, 
Your arms full, and your hair wet, I could not 
Speak, and my eyes failed, I was neither 
Living nor dead, and I knew nothing,
Looking into the heart of light, the silence. 
"Öd’ und leer das Meer." 
 
Madame Sosostris, famous clairvoyante, 
Had a bad cold, nevertheless 
Is known to be the wisest woman in Europe,
With a wicked pack of cards. Here, said she, 
Is your card, the drowned Phoenician Sailor, 
(Those are pearls that were his eyes. Look!) 
Here is Belladonna, the Lady of the Rocks, 
The lady of situations.
Here is the man with three staves, and here the Wheel, 
And here is the one-eyed merchant, and this card, 
Which is blank, is something he carries on his back, 
Which I am forbidden to see. I do not find 
The Hanged Man. Fear death by water.
I see crowds of people, walking round in a ring. 
Thank you. If you see dear Mrs. Equitone, 
Tell her I bring the horoscope myself: 
One must be so careful these days. 
 
Unreal City,
Under the brown fog of a winter dawn, 
A crowd flowed over London Bridge, so many, 
I had not thought death had undone so many. 
Sighs, short and infrequent, were exhaled, 
And each man fixed his eyes before his feet.
Flowed up the hill and down King William Street, 
To where Saint Mary Woolnoth kept the hours 
With a dead sound on the final stroke of nine. 
There I saw one I knew, and stopped him, crying “Stetson! 
You who were with me in the ships at Mylae!
That corpse you planted last year in your garden, 
Has it begun to sprout? Will it bloom this year? 
Or has the sudden frost disturbed its bed? 
Oh keep the Dog far hence, that’s friend to men, 
Or with his nails he’ll dig it up again!
You! "hypocrite lecteur!—mon semblable,—mon frère!”" 
 
[T.S.Eliot, The waste land]

domenica 1 dicembre 2013

Decadenza

Tutto il can-can di questi giorni avrebbe dovuto convincermi che qualcosa stia davvero cambiando, o che addirittura sia cambiato; invece, la parola Decadenza continua ad avere lo stesso significato di quando l'ho incontrata la prima volta, tanto tanto tempo fa.

Facevo la terza elementare, dovevo studiare una pagina dal sussidiario; il capitolo si intitolava Crisi e decadenza dell'Impero Romano. Parlava di come i valori civili e culturali avessero comihciato ad essere messi in discussione, di come il loro rispetto fosse diventato sempre più raro, e di come tutto questo avesse gradualmente ma irrimediabilmente minato una intera civiltà, che in seguito non era più stata in grado di riprendersi e risollevarsi.

In quanto è accaduto di recente non vedo nulla di diverso; e Decadenza continua a significare non tanto la cessazione di un incarico, quanto l'effetto di troppi anni di scelleratezza. 


venerdì 27 settembre 2013

Porto / Design

Mi piacciono gli armadi con le ante e i cassetti.
Mi piacciono le linee curve e gli imprevisti.
Mi piacciono i bagni con il bidet, e poi per favore una porta!
Mi piacciono le docce che non allagano l'intera stanza mentre ti fai lo shampoo.
Infine, mi piace sentirmi a casa; poter rimanere spettinata senza dover pensare che stono con il contesto.

Perciò, a futura memoria: evitare come la peste gli hotel design, anche se le foto sono splendide!

lunedì 16 settembre 2013

Disperazione / Speranza

Non le è mai capitata questa cosa: sentire che è vicina, che afferrerà fra un secondo l'aspirazione aggiornata e eternamente inseguita per anni e anni, il progetto che è insieme la sua disperazione e la sua speranza, stendere la mano per afferrarlo con insostenibile gioia e cadere all'improvviso all'indietro, con le dita chiuse sul nulla, mentre l'ispirazione o il progetto si allontanano tranquillamente da lei al trotto minuto dell'indifferenza, senza guardarla nemmeno?

[António Lobo Antunes, In culo al mondo]

mercoledì 6 marzo 2013

Dignità. Autodeterminazione.

Questo signore nella foto si chiama Marcello.
Si chiamava, perché è morto due giorni fa. Io l'ho saputo oggi.
Marcello Verdica.
Marcello Verdica Costantini, dicono i giornali; e io, questo secondo cognome, lo imparo ora.
Il suo nome e la sua foto erano sui giornali di oggi perché Marcello si è suicidato, e non in un modo qualunque: ha commesso un suicidio assistito.

Marcello è una di quelle persone che ci sono da sempre, amico dei miei genitori da che ho memoria. Era a casa sua che passavo tanti sabati pomeriggio, i grandi a giocare a carte, a parlare, chi lo sa; io e mio fratello in giardino con i gatti, o a fare le capriole sulla sedia a dondolo di bambù, oppure se fuori era brutto a osservare la collezione di pietre in salotto, e gli strani quadri in giro per casa, qualche volta perfino ammessi accanto al garage, nel Laboratorio-dove-si-sviluppano-le-foto.
Marcello. Marcello e Sara.

Non bisogna mica pensare, in realtà, a questo signore qui sopra. Quel Marcello là ha sì e no quarant'anni, trentacinque piuttosto; e la barba sì, ma scura. Un giorno, con i miei genitori, decidono di comprare una barca. Una specie di vasca da bagno in vetroresina, con un motorino fuoribordo da quattro cavalli. Ci salgono, tutti e quattro, prendono il largo. Non sono andati molto lontano perché la vasca da bagno, con i quattro giovani adulti scapestrati, è affondata. Non paghi, hanno comperato un gommone, sempre in comproprietà. Motore da venti cavalli, un Ducati.
Io non so se le cose siano andate proprio come racconto, è passato tanto tempo, io ero bambina e capivo quel che capivo; ma me le ricordo così. Ricordo per esempio che le cose, loro, i grandi -i grandi che conoscevo io- le facevano sul serio. C'era il gommone, e quindi c'erano la Gommonata e i Gommonauti. Era un mondo di favole.

Sono gli anni Settanta: gli uomini hanno quasi tutti i baffi e le basette, qualche volta i capelli lunghi; le donne i capelli li hanno lunghissimi o cortissimi, e quando vanno al mare dimenticano a casa il reggiseno - e le nonne si indignano e dicono "Quella là....".

Dai ricordi riemergono poi nomi di cose e persone. Lidio e la Pro Loco. Giancarlo e i Liberali, e la macchina da scrivere con i caratteri corsivi. La Dora, Mario, i referendum... L'AIED, qualsiasi cosa sia, quante volte l'ho sentita nominare! "Mamma ma perché loro non hanno bambini? "Perché non ne vogliono". Mistero... Capivo vagamente che l'AIED in qualche modo c'entrava; ma come, chi lo sa.

Il gommone successivo, Marcello e Sara l'hanno comprato da soli. Era grandissimo, e ci hanno fatto il giro d'Italia e hanno pubblicato le foto su un giornale. E' il ricordo di una bambina, magari sono andati "solo" fino a Ancona. Forse però sono arrivati fino in Grecia; e se ci sono arrivati, di sicuro ci si sono trovati bene. E ci sono andati di nuovo. E poi una volta hanno deciso di restare là, e allora niente più gatti nel giardino della casa, niente più casa, niente più quadri né foto, né Marcello, né Sara.
Li ho rivisti tempo dopo, Sara era su una carrozzella, avvolta in sciarpe e piumoni, troppi per una stagione tiepida. Poi, lei non l'ho vista più.


Oggi so che non vedrò più nemmeno Marcello; perché ha fatto un'altra delle sue scelte decise, senza ritorno e senza esitazioni. E ora tutti i ricordi si ricompongono in un disegno sensato.

Marcello era ammalato. Aveva un tumore al cavo orale per il quale era stato operato una volta, forse due. L'operazione successiva l'avrebbe lasciato incapace di bere, di mangiare, di parlare, senza peraltro garantire nulla sulle probabilità di continuare a vivere. La sua prospettiva era questa: un periodo forse breve, forse lungo o magari lunghissimo (minuto, dopo minuto, dopo minuto...) di vita, senza poter vivere. Unica certezza la sofferenza fisica, che già c'era; e certamente anche emotiva. Terapia del dolore, dunque: ma anche quella, lasciava intontiti, assenti, non permetteva di vivere. Quindi, ancora una volta, la scelta di autodeterminarsi.


Forse dovrei chiamarlo così, questo post: Autodeterminazione. Forse lo farò.
Ma andrebbero bene anche Coraggio, Coerenza, Diritti...
Scegliere, e permettere agli altri di scegliere per se stessi: questa è la lezione di Marcello.



Marcello si è rivolto a un'associazione in Svizzera, perché in Italia voler morire è reato. Non si può, non si deve. In Italia il calice, per quanto amaro, va bevuto fino in fondo. E' morto in esilio, Marcello, in compagnia di una persona coraggiosa che l'ha sostenuto, l'ha accompagnato fin là, e ha atteso con lui. Non so se questa persona abbia voglia di essere nominata, perciò non lo faccio. Ma l'associazione si chiama Dignitas, e si trova qui.



lunedì 14 gennaio 2013

Donne d'altri tempi


Le ore del silenzio Gaelle Josse, Le ore del silenzio

La quarta di copertina promette un romanzo che è il fratello minore de La ragazza con l'orecchino di perla; e il testo mantiene la promessa.
Romanzo breve, da leggere in una sera in cui non si ha la forza o la voglia di fare fatica: scrittura scorrevole, stile compito e regolare, argomenti che toccano ogni donna, trattati senza che possano far troppo male.
Magda è, prima, una ragazza sveglia, un po' maschiaccio, lusingata dall'essere trattata da suo padre come il figlio maschio mai nato; che forse usa l'attenzione agli affari per sedurlo, questo padre scontento di non avere eredi.
Poi, in questo suo ruolo, è rimpiazzata dal marito; e diventa moglie, amante, e madre. Della maternità conosce la gioia, e la profonda tristezza per i figli perduti.
Il romanzo è il suo diario, scritto nelle cupe ore notturne dopo aver perso una figlia neonata e dopo che il marito, per evitare nuove gravidanze preservarle la salute, forse per affetto forse per opportunità, le comunica che non giacerà più con lei.
Magda è gelosa della figlia e dei suoi nuovi amori, e allo stesso tempo felice per lei; donna di trentasei anni ormai vecchia e non desiderabile per decreto del marito, e pure ancora viva e desiderante.

Lettura molto piacevole.
Qui ho trovato una recensione che dice altre cose rispetto alla mia, coglie altri aspetti.

domenica 7 ottobre 2012

Dubbio

More about Cattolici
Brian Moore, Cattolici

Futuro prossimo, per Moore che scrive nel 1972: siamo intorno alla fine del XX secolo, Lourdes non è più riconosciuto come luogo di pellegrinaggio, l'abito talare per i sacerdoti è un'opzione fra tante e un Concilio Vaticano IV ha stabilito che il rito della messa non sia un miracolo ma un "pio rituale" con funzioni simboliche, e ha scelto la strada di un ecumenismo estremo, con la contaminazione tra cattolicesimo e buddismo. Su un'isola sperduta dell'Irlanda, un gruppo di monaci continua a dire messa alla maniera tridentina, attirando per questo solo fatto un flusso di pellegrini e, di conseguenza, l'attenzione dei media. La cosa non piace al Vaticano, che invia un giovane prete in carriera di origine irlandese, padre Kinsella, a ricondurre i monaci all'ordine.
La vicenda è scarna: padre Kinsella arriva, con qualche difficoltà, sull'isola; dialoga a più riprese con l'abate; e riparte due giorni più tardi con la promessa di quest'ultimo di un adeguamento del monastero alle ingiunzioni romane.

Dunque, cos'ha questo romanzo di tanto affascinante?

L'isola che fa da scenario alle vicende è un luogo, come dice l'abate stesso, "abbandonato da Dio". Ma lo è davvero? Davvero Dio si trova a Roma e in tutte quelle chiese dove si celebra un rituale ecumenico e ci si prende cura delle comunità? O forse quell'isola non sarebbe meglio descritta come "fuori dal mondo", e dunque più che mai vicina a quello stesso Dio?
Un abate dalla fede vacillante sceglie di obbedire ai suoi superiori; e proprio questa scelta lo spinge ad affrontare il suo dubbio e, dopo molti anni, a pregare nuovamente. Cosa chiederà a Dio? Probabilmente, di capire la fede dei suoi frati; e se valga di più la fedeltà a se stessi e a quanto si giudica vero, o quella alla parola data. Tanto più che quel voto di obbedienza è stato fatto nei confronti di una Chiesa tanto diversa, difficile da riconoscere in questa nuova, aperta ad altre e con altre confusa, Chiesa che per prima mette in discussione i propri dogmi.
Dare ascolto a se stessi, al proprio sentire profondo, alla fede dunque, sembrerebbe la scelta più "moderna", se nella modernità vogliamo vedere un percorso verso l'individualismo. E pure questa nuova Chiesa, aperta più che mai a ogni diversità -al punto di confondersi con altre- questa Chiesa si propone a sua volta come "moderna", accusando i monaci irlandesi di non essersi aggiornati nei riti e nel sentire; ma proprio questa nuova Chiesa, più che mai chiede al proprio interno adeguamento e uniformità. Non ascolto della fede del singolo, ma ordine sociale e obbedienza. In tutto ciò, esiste ancora uno spazio per la coscienza?
Molte le domande che dovrà porsi l'abate, e che siamo costretti a porci noi lettori. Chiesa e fede possono dunque convivere? La Chiesa esiste per i fedeli o per Dio? Deve esistere nel mondo, o fuori dal (pazzo) mondo?

L'escamotage del collocare le vicende in un qualche futuro non ci faccia dimenticare la realtà. L'immaginario Concilio Vaticano IV non fa che amplificare le questioni aperte dal Vaticano II del 1962-65, che ha realmente affrontato le questioni della Chiesa cattolica nel mondo moderno e dell'ecumenismo.
Il romanzo, pubblicato nel 1970 e dunque scritto nel pieno della questione sollevata dall'arcivescovo (poi scomunicato) Marcel Lefebvre, sembra anticipare di qualche anno la rottura tra Roma e il seminario di Ecône. Probabilmente la chiave di lettura politica può svelare qualche movente e qualcuno dei temi di Cattolici, che rimane comunque quasi un breviario delle domande che ogni buon cattolico si trova, o dovrebbe trovarsi, di fronte, nel rapporto quotidiano, politico e di fede, con la propria chiesa.

Se poi qualcuno ne ha tempo e voglia, qui si può vedere il film del 1973 tratto dal romanzo.

martedì 26 giugno 2012

Deragliamento

More about Mille anni che sto quiMariolina Venezia, Mille anni che sto qui


Per almeno centocinquanta pagine ci si orienta agevolmente: molti i personaggi, soprattutto donne, ma sensato sempre il loro modo di esistere, i rapporti, l'eredità che ne porterà chi verrà dopo. E se dovessimo perdere la bussola, c'è una mappa genealogica certa, semplice, che ci sostiene.
Poi, i fatti i nomi le vicende prendono a confondersi, gli episodi si ripetono, i ricordi sfumano e soprattutto il ritmo accelera, diventa più facile perdere il filo. Dopo tanti capitoli di chiarezza e consequenzialità compare un unico nome equivoco, Gioia, come un'anticipazione non si sa ancora di cosa; e purtroppo sa di espediente letterario.
Un po' come in Isabel Allende o Marcela Serrano, nel racconto si intrecciano politica e magia, progresso e abdicazione a se stessi, senza ritorno.
L'accelerazione, la crescente confusione, saranno una scelta di stile, per coerenza con una tradizione perduta e tradìta, o semplice stanchezza nel tenere le fila di troppi ricordi, di eredità troppo complesse e pesanti? Eredità inspiegabili per chi abbia perso le radici, e non abbia potuto ascoltare anno dopo anno i racconti tra donne di casa, in casa, quelle parole parole infilate una dopo l'altra nelle cucine, nei cortili, nei soggiorni, a costruire un racconto che, come le tovaglie ricamate,acquista senso solo una volta completato, dall'insieme di infiniti insignificanti dettagli. Catene di parole che tutto accolgono, tutto spiegano e giustificano; parole che a Gioia mancano e il cui eco la richiama, esangue, tra le mura di Casa, dopo una vita uscita dai binari.

domenica 17 giugno 2012

Dolore

More about Brevi interviste con uomini schifosiDavid Foster Wallace, Brevi interviste con uomini schifosi

E' più di un mese che ho finito di leggere le Interviste di DFW; e ancora oggi devo forzarmi per scriverne qualcosa.
Sarà forse perché tutto sembra già essere stato pensato, e considerato, e criticato, e scritto in quella stessa pagina che tentiamo di chiosare.
E poi c'è la sofferenza.
Durante la lettura, mentre l'occhio scorreva sulle righe, pensavo che sarebbe stato meglio rallentare, prestare più ascolto, provare a capire; e pure, non volendomi arrendere a sorvolare su interi paragrafi, concretizzavo il desiderio di fuga leggendo in velocità, nel tentativo che tutto finisse il prima possibile.
Da allora, le parole di DFW sedimentano lentamente e io cerco di abituarmi ai diversi generi di dolore che hanno risvegliato. Il campionario è ampio: di racconto in racconto, ci si può immedesimare nel bambino che si tuffa o in sua madre distratta e poi preoccupata ma comunque lontana; nella persona depressa o in chi nonostante tutto l'ascolta; nel padre che odia suo figlio o nel figlio che si suicida come dono estremo a sua madre che non l'ha mai amato. In chi abbandona e in chi  abbandonato, in chi stupra e in chi è stuprato. Fa tutto troppo male, e una volta chiuso il libro la cosa migliore è dimenticare tutto. La reazione è così forte che davvero, poche ore o anche pochi minuti dopo aver chiuso il libro, sembrava non ne fosse rimasto nulla.
Ma, posta qualche distanza tra me e le pagine scritte, ecco che lentamente qualcosa riemerge. Non più dolore, non più disgusto per questi uomini "schifosi" e per l'odio di sé che tutti senza eccezioni provano e dissimulano e per la distanza fatta di diffidenza e sospetto che irreparabilmente li divide; ma qualcosa di diverso.
Vedo un giovane scrittore umanista e poco adatto ai salotti osservare gli uomini e le donne e la loro meschinità, e osservare se stesso con lo stesso occhio disincantato. Lo vedo scrutare e descrivere la pochezza dei propri moventi, e dei loro. Lo vedo computare le sofferenze provate da ciascuno e quelle inflitte, e sperare in una migliore comprensione che permetta a ciascuno di capire di più, e di più perdonare a questa umanità dolente. Lo vedo riconoscere in ciascuno la sua stessa nostalgia di un'umanità diversa.
E ancora lo vedo farsi carico di tutto questo, accorgersi un giorno di non averne la forza.
E alla fine arrendersi.

martedì 24 aprile 2012

Deprioritizzare

Ho sentito questa parola giorni fa a una conferenza di tema farmaceutico. Ad essere lessicalmente precisi (per quel che vale, visto il contesto...) il verbo era un passato prossimo passivo: "il progetto è stato deprioritizzato".

Non sto a cercare il termine su un vocabolario, so bene che non lo troverò; questa volta vado diretta a google e, con una certa sorpresa, trovo ben cinque occorrenze:
- una parla di software, decido di non approfondire oltre
- una la cito perché si commenta da sé: "chiedere alc apo cosa deprioritizzare e' sempre uan scelta ottima soprattutto se si aggiunge uno straccio di motivazione"
- una parla di software E la cito: "prioritizzare il VoIP, IM, > Web, DNS, e deprioritizzare e-Mail, P2P e ..."
- dalla quinta finalmente capisco che deprioritizzare è un modo gentile (anzi, 'soft') che il mondo dell'informatica utilizza per significare l'abbandono.

E allora mi viene in mente quante volte ho deprioritizzato, e quante sono stata deprioritizzata io.
Forse più le prime delle seconde, ma forse no.

Curiosamente, il termine opposto prioritizzare compare in 8.930 occasioni, e la prima segnalazione rimanda, nientemeno, all'Accademia della Crusca. Copio integralmente, da qui:





Priorizzare
prioritareprioritizzareprioritarizzare:
a quale forma assegnare la priorità?
La questione che ci viene posta riguarda, dal punto di vista generale, la derivazione da sostantivi o aggettivi di una forma verbale sintetica in luogo di una espressione analitica. Soprattutto in tempi recenti e in special modo in ambito burocratico e scientifico, si assiste a un proliferare di verbi uscenti in -are di nuova coniazione: così attenzionare, per ‘richiamare l’attenzione di’, o efficientare, per ‘rendere efficiente’ e simili. Questo aspetto è già stato trattato in questo stesso sito da Raffaella Setti.
Venendo al caso particolare dei verbi priorizzareprioritareprioritizzare,prioritarizzare per esprimere il concetto di ‘assegnare la priorità a qualcosa’ o ‘stabilire le priorità in una serie di oggetti, eventi, o simili’, le quattro alternative proposte sono diverse dal punto di vista formale in quanto a derivazione, ma tutte ammissibili: prioritizzare è sicuramente un adattamento recente dell’ingleseprioritizeprioritarizzare deriva dall’aggettivo prioritario introdotto in lingua nel XX secolo (1963); prioritare è riconducibile direttamente a priorità, voce dell’inizio del XV secolo, dal latino medievale prioritas ‘precedenza’; infine priorizzare si presenta come un termine dotto derivante dal latino prior (gen. prioris) ‘primo di due, precedente’, comparativo di prī ‘davanti, prima’, forma che sta alla base di priorità, nonché dell’italiano priore.
Cerchiamo di capire se una tra le forme proposte sia legittimata dalla tradizione scritta o, quanto meno, sostenuta da una larga diffusione nell’uso.
Per quel che riguarda le attestazioni lessicografiche, non troviamo le forme nelVocabolario Treccani, né nel Dizionario italiano on line della Hoepli, né inSabatini-Coletti 2008Devoto-Oli 2012, ZINGARELLI 2011, GARZANTI 2007. SoloGRADIT 2007, opera che programmaticamente registra l’uso anche legato ad ambiti specialistici, riporta unicamente priorizzare la cui prima testimonianza risalirebbe a un articolo del “Corriere della Sera” datato 1992.
Esaminando l’archivio del “Corriere” ci rendiamo conto che l’impiego nell’articolo citato da GRADIT (Antonio Costa, Democrazia o prosperità: il dilemma irrisolto del post comunismo, 19.01.1992) costituisce l’unica occorrenza nel corpus; nessuna traccia delle altre forme verbali, né di sostantivi derivati. Non troviamo attestazioni utili nell’archivio di “Repubblica”, mentre in quello della “Stampa” abbiamo due occorrenze di priorizzare e una del sostantivo priorizzazione: il primo riscontro del verbo risale al 2004 (Incontro nello stabilimento di Belo Horizonte - Morchio vede Lula «Brasile strategico») e il più recente al 2009 (Il viceministro Fazio: «No alla corsa al farmaco è inutile e dannosa»); ancor prima, in una lettera datata 25.04.2003, si parla di “un'innovativa modalità di priorizzazione viaria del servizio pubblico”. 
Lo stesso quotidiano sembra essere l’unico a testimoniare l’uso di prioritizzare in un intervento di Roberto Quaglia, direttore generale di ESCP Europe Italia, dal titoloUna vetrina per i giovani stranieri, dello scorso 12 febbraio: “Prevederei anche un retrobottega pensante, che definisca le priorità per il territorio, in collegamento con la politica locale. Prioritizzare è necessario, sparando nel mucchio si sprecherebbero le poche cartucce a disposizione”. Neanche nell’archivio della “Stampa”, troviamo attestazioni delle altre due forme verbali prioritare eprioritarizzare, né dei sostantivi connessi.
La consultazione del GDLI, che tratta le testimonianze della tradizione scritta della nostra lingua, non offre riscontri per nessuna delle forme verbali; troviamo però il sostantivo priorizzazione registrato come sinonimo disusato di ‘priorità’. Nel dizionario si cita un passo dagli Errori di lingua italiana che sono più in uso di Antonio De Nino (1866): “M’è dispiaciuto di leggere anche in opera di egregio scrittore vivente la voce priorizzazione, poiché abbiamo priorità non ancora uscita d’uso: mentre priorizzazione è usata da pochi. Sarò da riprendere se stento ad accoglierla per buona? Non credo” (p. 44 sg.). La stessa condanna della voce troviamo nel Lessico dell’infima e corrotta italianità di Pietro Fanfani e Costantino Arlìa (1877), dove, dopo la citazione dallo stesso De Nino, si dice “Molti degli egregi scrittori viventi, pur troppo, sig. De Nino, non solo non curano ma affettano, e se ne vantano, di non curare la lingua. Questa voce, che è accia, se è usata da pochi, e’ debbon esser di quelli che vanno cercando col fuscellino di cosifatte sgarbate, strampalate e cervellotiche voci e frasi…”. Parrebbe quindi che il sostantivo, che ripetiamo non è registrato dalla lessicografia dell’uso attuale, sia stato introdotto nel XIX secolo.
Una ricerca condotta nel corpus offerto da Google libri permette di ricondurre le prime testimonianze scritte di prioritizzare e prioritarizzare al XXI secolo (rispettivamente al 2005 e 2006) e quelle dei relativi sostantivi agli anni Ottanta del secolo scorso: prioritizzazione appare nel 1983 nel volume XXVII della rivista “Il Veltro”, edita dalla Società Dante Alighieri, in un brano che tratta di informatizzazione di testi («prioritizzazione dell'ordine delle scansioni o “runs”»),prioritarizzazione nel 1986, in un testo di Graziella Tonfoni, Intenzione comunicativa e interpretazione nelle conversazioni, “Studi italiani di linguistica teorica ed applicata”, (“prioritarizzazione del ruolo del parlante”). Prioritarerisalirebbe invece al 1985 in “Nord e Sud”, Volume XXII (“prioritare la pre-scuola e l'istruzione degli adulti”), mentre non c’è traccia di un ipotetico prioritazione.
Più antico invece risulta priorizzare, la cui paternità, insieme a quella del sostantivopriorizzazione, sembra potersi attribuire a Simone Corleo (1823-1891), filosofo e politico siciliano, che nella sua Filosofia universale (Palermo 1860 e 1863), aveva coniato il principio della “priorizzazione dei concetti”. All’interno dell’opera ricorrono assai spesso sia il sostantivo sia il verbo, soprattutto il participio passatopriorizzato. Solo qualche esempio: “La scoverta della priorizzazione dei concettimi diede la chiave per ispiegare la necessità ed universalità de’ giudizii assoluti; […] ebbi a vedere che i concetti, una volta formati, divengono punti fermi ed immutabili, e prendono, per cosi dire, il davanti, si priorizzano”(p.261); “imperocché tutte le verità assolute del regno logico [...] non son altro, che i concetti priorizzati, cioè i punti fermi delle idee” (p.547) [corsivi nostri]. Il verbo e il sostantivo sarebbero quindi nati nell’ambito intellettuale della Sicilia risorgimentale; in seguito, a partire dalla pubblicazione della Filosofia universale, la “priorizzazione dei concetti” è stata discussa in ambito filosofico (lo fecero tra gli altri Benedetto Croce e Giovanni Gentile), favorendo il diffondersi di verbo e sostantivo nell’ambito della disciplina; successivamente priorizzare e priorizzazione si sono affermati negli studi di sociologia e pedagogia, di politica e storia, fino a quelli di economia.
È possibile che priorizzare, una volta uscito dall’ambito culturale di origine, intorno agli anni Ottanta si sia inserito tra le possibili “risposte italiane” all’ingleseprioritize (e prioritization), che si stavano affermando in quel periodo, trovando un nuovo impulso alla sua diffusione. Da un sondaggio in rete si può dedurre che attualmente gli ambiti d’impiego delle forme verbali citate e dei sostantivi derivati siano pressoché gli stessi: la gestione aziendale e il marketing, le associazioni sindacali, le amministrazioni pubbliche e la sanità, l’informatica, la telefonia mobile e perfino, con discreto successo, il body building: si possono priorizzare oprioritare o prioritizzare o prioritarizzare i prodotti turistici e le richieste dei clientigli obiettivi e gli interventigli atti amministrativi e i flussi ciclabilii problemi di salute ei pazienti in lista d’attesai frame e i filei pacchetti e le connessioni di rete e perfinoi quadricipiti.
Se non appaiono ormai differenze sostanziali in rapporto ai settori d’uso, è però riscontrabile un’occorrenza decisamente minore di prioritazione rispetto ai sostantivi concorrenti; anche prioritare sembra (la ricerca presenta troppo “rumore” per permettere affermazioni certe) meno diffuso degli altri verbi. Prioritarizzare eprioritarizzazione hanno una diffusione discreta e praticamente equivalente; infine i più usati risultano decisamente l’anglismo prioritizzazione, ma non prioritizzare, e il verbo priorizzare, ma non il sostantivo priorizzazione.
Per concludere, priorizzare e priorizzazione, presenti nella tradizione scritta della nostra lingua da quasi due secoli, rappresentano a nostro avviso la più idonea tra le possibili scelte, anche se non è da escludere per il futuro un accoglimento diprioritizzare e prioritizzazione grazie alla loro larga affermazione nell’uso.
A cura di Matilde Paoli
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca



Che dire, che aggiungere?
Solo che amo la lingua italiana, e amo teneramente chi la ama.
"Priorizzare i quadricipiti"........

lunedì 26 settembre 2011

Dublino a colori

Sicuramente verde. Prati anche nel mezzo del traffico e soprattutto nelle Università, sia il Trinity College in pieno centro, tanto più l'UCD e il suo immenso campus. Vestiti: quasi tutti i dublinesi indossano qualcosa del loro colore nazionale, sciarpe berretti felpe maglioni, ma anche cravatte e abiti eleganti e orecchini e cappotti. E poi pareti, tra tutte quelle della National Library, arredi (il salotto nel bagno della N.L., memorabile!), manifesti, oggetti di ogni genere.

Arancione: i capelli. Che non sono davvero rossi, ma soprattutto nei bambini percorrono infinite gradazioni di colori di fiamma. E, naturalmente, la bandiera.

Grigio: il cielo. Sempre.

Azzurro e blu, verde e giallo: le sciarpe dei tifosi diretti alla finale nazionale di football al Croke park, domenica 18. Alla fine ha vinto Dublino, contro il Kerry, e non succedeva da 16 anni: hanno bevuto, tanto, e tutti insieme, e il giorno seguente erano quasi tutti in ferie.

Bordeaux, antracite, blu. I colori delle divise scolastiche, ragazzi tutti uguali e ugualmente annoiati, ragazze obbligate fino a 18 anni a indossare gonnellone tristi e improbabili.

Dublino prima e dopo

Prima di partire, Dublino è il ricordo lontano e sfocato di una città fredda anche in agosto, capitale di un paese povero dove si fa l'autostop perché non ci soldi per prendere il treno, e anche perché a volte non c'è nemmeno il treno. Dublino: scogli grigi di fronte a un mare più grigio, sotto una torre tozza e muta. Cartelli per turisti con biografie di scrittori. Lo svincolo di una superstrada che parte sussiegosa, per ridiventare tratturo appena raggiunta la campagna.

Ora, al ritorno, Dublino è assai più viva. Centro grande, persone determinate e piene di iniziativa, professionali, decise. Strade vivaci, negozi pieni di merci e di gente. Sui marciapiedi, passi veloci di chi sa dove sta andando. Servizi e istituzioni che funzionano, cultura a ogni passo. Dublino oggi: capitale di un paese che ha subito una scossa forte ma non si ferma, mantiene la direzione, e rimane ospitale e curioso e gioviale com'era.

domenica 25 settembre 2011

Dublino - James Joyce

Appunti per l'Ulysses / 1
Appunti per l'Ulysses / 2

Sala di lettura della National Library
Joyce in O'Connel St.
Finn's Hotel
Sweny's Chemist


Porta di 7 Eccles St.

martedì 23 agosto 2011

Distanza (di un bacio)

Ecco: mi piacerebbe descriverla, e non ci riesco. E' probabile che sin dal primo istante io l'abbia guardata troppo da vicino, come sempre avviene con le cose che si desiderano molto: sapreste dire che forma e colore ha il frutto che state addentando? Quando si ama una donna come io ho amato lei, si ha l'impressione di averla vista sin dal primo giorno alla distanza di un bacio.

[Irène Némirovsky, Il calore del sangue]

domenica 10 luglio 2011

Disfacimento

More about Due
Irène Némirovsky, Due

Una tiepida malinconia si alterna alla febbre delle passioni in queste preziose pagine del 1939. La pienezza di vita degli adolescenti, ciascuno diversamente tormentato e inquieto, si appesantisce della nebbia ricorrente, di un'umidità che penetra nelle ossa e prende ad intaccare i corpi. E quando poi splende il sole dell'estate della vita, ecco che subito ha inizio il disfacimento di carni, di anime ancora intatte. Prime rughe che già sono presagio di morte. Ultimi desideri di moribondi che, esausti, non chiedono che un ultimo raggio di luce sul muro; senza ottenerlo.
Scrittura d'altri tempi, quella di Irène Némirovsky; particolarmente datato sembra il 'lieto fine', con l'immagine del matrimonio come porto sicuro nonostante tutto.
Ma la prosa scorre facilmente, si percorre la pagina nell'attesa di scoprire se una qualche felicità sia possibile, e intanto la spossatezza dei personaggi, ancora giovani ma già corrotti dalla vita, dagli ozi, dalla ricerca di un'impossibile quiete, contagia anche il lettore.
Parola dopo parola, l'allegria si spegne, le scelte vengono compiute, i giovani diventano adulti e ancora non sono capaci di governare le proprie esistenze, né mai -probabilmente- lo saranno.


Grazie ai diversi amici lettori che mi hanno incoraggiata a leggere ancora la Némirovsky: ne valeva la pena (e ho già cominciato il prossimo...)

venerdì 10 giugno 2011

Realismo depressivo

Scrive Graham Lawton -giornalista e divulgatore scientifico- su New Scientist (e io leggo, tradotto, su Internazionale):
"Quando si chiede alle persone di giudicare i loro pregi - competenza, intelligenza, onestà, originalità, affidabilità e molti altri - quasi tutte si collocano sopra la media. E con i difetti succede la stessa cosa: la maggior parte pensa di averne meno della media. [...] E la maggioranza è convinta di essere meno propenso della media ad avere un'alta opinione di sé. [...] Lungi dall'essere patologiche, però, le illusioni positive sono ritenute l'indice di una mente sana. Chi non le ha è più a rischio di depressione, uno stato noto come realismo depressivo."

Sono giorni, e notti, che questa definizione, realismo depressivo, continua ad echeggiare; sembra giunto il momento di ascoltare, approfondire, mettere a fuoco. E, visto il tema scottante e la relativa carenza di fonti, mi addentro per una volta nella e-jungla a scegliere, semplicemente, quelle che mi piacciono, o mi interessano di più.

Nella jungla incontro un tale Chris Putnam:
"This theory puts forward the notion that depressed individuals actually have more realistic perceptions of their own image, importance, and abilities than the average person. While it’s still generally accepted that depressed people can be negatively biased in their interpretation of events and information, depressive realism suggests that they are often merely responding rationally to realities that the average person cheerfully denies. [...] These problems put therapists in the curious position of teaching patients to develop irrational patterns of thinking—patterns that help them view the world as a rosier place than it really is. [...] It’s a disconcerting concept. It’s certainly easier to think of the mentally disordered as lunatics running about with bizarre, inexplicable beliefs than to imagine them coping with a piece of reality that a “normal” person can’t handle."

Ora: a parte che questa nota è scritta davvero bene, per il resto non c'è niente di nuovo; anzi, scopro che le osservazioni di questa notte, così come la nota di Putnam, l'articolo di Lawton e certamente anche dell'altro, derivano da un articolo scientifico del 1988.
Qui, peraltro, non si cerca niente di nuovo. Tutt'al più, si fanno esperimenti di ontogenesi (nella mia modestissima esperienza) della filogenesi delle parole. Prove di etimologia applicata.

Concludo (citando in traduzione inglese, chiedo venia):
“Take the life-lie away from the average man and you take away his life.” [Henrik Ibsen, The Wild Duck]

martedì 10 maggio 2011

Duraturo




Non conoscerò mai qualcosa di duraturo. Soltanto gli irrinunciabili ricordi di sentimenti discontinui e provvisori; un'interminabile saga di tutto ciò che non ha funzionato...

[Philip Roth, Il professore di desiderio]