lunedì 10 novembre 2014

Tango

tango
(tango, tangis, tetigi, tactum, tangĕre)
verbo transitivo III coniugazione

1 prendere, toccare
2 sottrarre, rubare
3 percuotere, battere, colpire, colpire a morte
4 ammaliare, sedurre, far colpo
5 (di mari, fiumi e corsi d'acqua in generale) toccare, bagnare
6 (in senso figurato) emozionare, turbare, alterare, commuovere, toccare
7 (in senso figurato, di un argomento) toccare, abbordare, trattare
8 (in senso figurato) imbrogliare, raggirare, ingannare, truffare
9 (in senso figurato) schernire, offendere, insolentire, insultare, infastidire
10 degustare, assaggiare
11 confinare

sabato 8 novembre 2014

Man

"This was the man: never able to make a decision, never able to state a position".

Zadie Smith, White teeth

lunedì 1 settembre 2014

Ombre

2012

lunedì 25 agosto 2014

Amare - Prendersi cura



An amazing feeling coming through...

I was born to love you with every single beat of my heart
Yes I was born to take care of you
Every single day of my life

You are the one for me, I am the man for you
You were made for me, you're my ecstasy
If I was given every opportunity, I'd kill for your love
So take a chance with me, let me romance with you
I'm caught in a dream and my dreams come true
Its so hard to believe this is happening to me
An amazing feeling coming through

I was born to love you with every single beat of my heart
Yes I was born to take care of you
Every single day of my life

I wanna love you, I love every little thing about you
I wanna love you love you love you
(Born) to love you (born) to love you yes (Born) I was born to love you
(Born) to love you (born) to love you every single day of my life
I was born to take care of you, every single day of my life

Alright! hey! hey!
Every single day of my life

I was born to love you with every single beat of my heart
Yeah I was born to take care of you honey, every single day of my life

domenica 24 agosto 2014

Amare - Creare

Massimo Gramellini, ancora lui.


Caro Filèmone,  
mi trovo a Rapa Nui da qualche giorno e ti scrivo dalle pendici del vulcano di Rano Raraku, dopo una di quelle meravigliose scarpinate spezza-ossessioni che tu tanto sponsorizzi. 
Un moai steso sul fianco sembra guardarmi negli occhi e promettermi che tutto andrà bene… Mi affascinano queste facce enormi, con le labbra serrate, come a volerlo mantenere loro per prime, il segreto che le riguarda. Sono state costruite per augurare buona pesca e buona vita a tutti? Sono tombe? Divinità? 
Bill, il proprietario della pensione dove alloggio, mi ha raccontato che nessuno può dirlo. E’ un vecchio austriaco con lo sguardo di chi ne ha viste tante, forse addirittura troppe: e non è un caso che, a un certo punto, abbia deciso di trasferirsi qui dove non c’è niente da imparare, ma solo misteri da accettare. Non è un caso nemmeno che qui ci sia finita io, me ne rendo conto giorno dopo giorno. 
«Quante domande vi fate, voi!», mi ha detto oggi Ramana, la ragazza che aiuta in cucina Edith, la moglie di Bill. Con «voi» intendeva noi tutti che non facciamo parte dei duemila abitanti dell’isola. Sembra sinceramente divertita dal nostro bisogno di domande. E su tutte, quella che le pare più assurda è: figli sì o figli no? 
«Mia madre ha venticinque fratelli… Io ne ho quattordici. Praticamente siamo tutti parenti, a Rapa Nui», mi ha spiegato Ramana. «Come è possibile non avere figli?»
Si è messa a ridere, mora e un po’ magica. Molto diversa dalle persone che scrutavano Leonardo e me, e senza chiedercelo ce lo chiedevano: perché non fate un figlio? Quelle persone, diresti tu, ci giudicavano. Ramana non giudica: si stupisce, come una bambina. Il suo stupore mi arriva dentro, dove quella domanda, naturalmente, c’è. Raschia. 
Perché non abbiamo avuto un figlio, Leonardo e io? 
Magari ci saremmo messi in salvo. Ci avrebbe messi in salvo lui. 
Chi può dirlo? Tu, naturalmente. 
Giò 


Nascere per salvare il matrimonio dei propri genitori: pensa con che peso sarebbe venuta al mondo, quella creatura. 
Se i moai potessero aprire bocca, forse direbbero che i figli vanno fatti per il bene dei figli: non dei padri e nemmeno delle madri. 
L’amore assomiglia a Ramana: si stupisce delle domande e non ne fa. 
Non ha un perché. E’ il perché. 
E il suo perché è il desiderio di generare qualcosa che ci sopravviva. Un figlio. Fisico, oppure spirituale. Infatti non esiste solo la fecondità del corpo. Anche l’anima può fecondare e venire ingravidata. Anche l’anima, come il corpo, può eccitarsi davanti alla bellezza e provare la pulsione irresistibile di creare qualcosa che le sopravviva.
Nel Simposio, Platone ha rivelato agli esseri umani una verità di quattro parole che contiene tutto quanto è necessario sapere. 
Soltanto chi ama crea. 
Sì, Giò, hai compreso bene. L’amore è l’energia dell’Universo, ma non a tutti è dato di entrarvi in contatto. Si impossessa soltanto di chi ama. Se invade il suo corpo, porterà alla nascita di una creatura. Se invece gli invade l’anima, genererà qualcos’altro. Genererà delle opere. 
Il catalogo di questi figli dello spirito non comprende solo le arti, ma si esprime in una gamma che investe ogni aspetto dell’esistenza. L’Universo saluta con gioia qualsiasi desiderio verso cui l’amante diriga la sua energia. Perciò sentiti libera di amare un progetto, un’alba, una comunità, un ideale. Ma sappi che sarai veramente viva soltanto se amerai qualcosa o qualcuno.
Tu e Leonardo eravate una coppia sterile. Creavate infelicità. Entrambi ammalati di infantilismo, vi mostravate al mondo concentrati su voi stessi e paralizzati dalle responsabilità. E’ preferibile che non faccia figli chi si sente ancora un figlio. Diventa madre dentro di te e ti garantisco che lo diventerai anche all’esterno: di una creatura fisica, come di una qualunque idea che avrai concepito con amore e di cui con amore saprai seguire la crescita.
Mi potresti replicare che gli esseri umani hanno una capacità straordinaria di adattamento e che tante donne immature si sono scoperte adulte proprio in seguito a una gravidanza: se avessero aspettato di essere pronte, non lo sarebbero state mai.
E’ la verità, ma conosci già la mia risposta: ciò che ci accade è sempre giusto e perfetto. Se a te non è successo, significa che la tua esperienza in questa vita doveva essere un’altra. Non avere figli. Averli con qualcuno che non fosse Leonardo. Oppure averli con lui, ma solo se sarete riusciti a diventare una coppia di danzatori immersi nell’armonia della vostra musica e non più due burattini di legno che si pestano i piedi a vicenda. 
Filémene

giovedì 21 agosto 2014

Invidia


E' con i cattivi sentimenti che si fanno i buoni romanzi.
Aldous Huxley (credo)

giovedì 14 agosto 2014

Libertà


Grazie, Wired.



I media decidono “perché” ci si uccide. Di Robin Williams e del “discorso” che esorcizza la libertà degli umani

(foto: Getty Images)
(foto: Getty Images)
Decidono alla velocità della luce. Era depresso. Si è ucciso. Ciò che è detto in California, è detto ovunque. La diagnosi avvolge l’universo informativo alla velocità elettrica che porta l’informazione. Eppure, che qualcuno desse la sua versione della tua libertà, è ciò che accadeva quando ci riscaldavamo con i tocchi di legno.
Non è una novità. Ma quando succede per un personaggio che tutti conoscono lo noti ancora di più. Questa forza dei media di dotare l’evento di un senso che entra a far parte dell’evento stesso. Che riconosci come falso, ma non riesci a fermare, come un cattivo odore nell’aria. “Lui si è ucciso perché era depresso”. Ecco che la “realtà” è costruita. E i social media rafforzano lo strato di pregiudizio, solidificano la convinzione planetaria, la rendono inscalfibile pena lo stigma e la condanna del contestatore.
A questo punto i politici possono dare il via al loro delirio. Ed è quasi normale che oggi ci sia chi si chiede se non si debba far qualcosa per “prevenire”. La “camicia di forza” sta sempre nell’inconscio della politica, anche di quella più liberale.
E invece bisognerà gridare con tutta la poca forza che rimane, anche se ci si trova da soli, che loro non hanno in mano una prova, come quando decidono il colpevole di una catastrofe. Bisognerà dirglielo, che il nesso fra depressione e suicidio non è mai sperimentalmente provato, se non nel mondo delle loro statisticuzze manipolate e delle loro teorie di medio raggio. Ripetere che psichiatri e psicologi quando escono dal loro studio ed entrano in uno studio televisivo, in una redazione o in un social network sono funzionari dell’ordine sociale, del “non si deve”, del divieto. Come quelli che, nominati consulente di un giudice, “sanno” già che l’imputato è  colpevole perché in realtà non conoscono la linea di confine fra “consulere” e decidere, tra il diritto e le concezioni del mondo. Non stanno al loro posto. Esondano nelle menti altrui.
La libertà di morire non si identifica qui e subito con la depressione. Il desiderio di non andare più avanti, di scendere dal treno non solo non è un reato – come invece avviene negli ordinamenti più criminali – ma è una idea con una sua dignità e una sua continua presenza lungo tutto il corso della vita. Che dice a tutti noi che la morte è realtà, questo è il crimine che chi la pratica commette. Eppure, come scriveva Vladimir Nabokov, “La culla dondola sull’abisso”. Noi “stiamo per” morire, dal momento dalla nascita. Paura eh? Meglio chiamare lo specialista.
Bisognerà pur smetterla di criminalizzare e medicalizzare tutto ciò che la società non approva moralmente. Il riflesso condizionato che fa scattare la misura repressiva sulla base del disgusto o del terrore dovrà spezzarsi una buona volta. E uno di questi modi sarà legalizzare l’eutanasia e il diritto di morire, per dire di un tema contiguo a quello del suicidio “puro”.
Ma anche quello della buona morte è un recinto stretto. Il desiderio di morire non appartiene solo a chi è in metastasi o a chi – trombe dell’apocalisse, suonate – “era drogato”, a questo punto è un sabba di fantasmi neri. Sciocchi.
Si può voler morire perché si è persa l’unica persona che nel mondo desse a te una ragione di vivere, e non c’è nessuna sanità prescritta nel “riprendersi”. Si può voler morire perché, dopo aver fatto tutto quello che di meglio potevi fare nella vita, senti di aver varcato la linea d’ombra e il pezzo in ombra tu non vuoi percorrerlo – e non c’è ciancia di religioso che tenga. Si può “voler” morire perché così senti.
Morire non è solo il diritto del malato. La morte è una idea non-malata. Non dico sana, solo perché non so cosa sia “sana.” E la parola dei media dovrebbe smetterla di piantare le bandierine della banalità e dell’idiozia di senso sopra ciò che non si spiega. La necessità di chi fa i titoli non può limitare la libertà delle persone. Fino a quando non accade questo, la libertà non esiste, e ogni media equivale all’inquisitore seicentesco, che impone il suo senso con la tortura.

domenica 13 luglio 2014

Gradiente termico verticale

"Il gradiente termico verticale è il valore (o tasso) con cui cambia latemperatura dell'aria al variare della quota.
In atmosfera standard equivale a −6,5 °C ogni 1 000 m, ma in realtà può discostarsi molto da questo valore a seconda delle condizioni atmosferiche e del luogo considerato; può crescere molto in presenza di regimi turbolenti dell’aria o in presenza di forte riscaldamento del suolo.
Se il valore è superiore a 10 °C ogni 1 000 m (1 °C/100 m) l'aria è instabile (succede in caso di temporali)."
Cosí wikipedia, passim.
Quindi, in caso di temporale, salendo di 3.000 metri la temperatura può scendere anche di 30°C.
Ecco. Oggi ho imparato questo.
E anche, forse, qualcosa sul mistero; e sul significato che una vita acquista a seconda del momento e del modo in cui finisce.

Disperso

Fino a ieri, disperso era il padre di mio nonno, soldato austriaco della prima guerra mondiale mai tornato dalla Galizia.
Disperso: per sua moglie con tre figli piccoli, aspettare, aspettare, e un giorno dover decidere, a esserne capaci, che non tornerà più. Per mio nonno, che era uno di quei bambini, crescere senza un padre, senza doveri e pure senza diritti.
Ora, disperso è il figlio di quello stesso nonno.
Volava con il parapendio, ed è stato risucchiato da una nuvola (cosí dice il giornale).


Diversa l'attesa, più breve, e finita.

sabato 12 luglio 2014

Superfetazione

n.f. [pl. -i]

1 ( biol.) anomalia fisiologica per cui, dopo la fecondazione di un ovulo, si produce un altro ciclo mestruale con maturazione di un ovulo che viene a sua volta fecondato; determina, qualora il secondo embrione riesca a svilupparsi, un parto gemellare | ( bot.) fecondazione di un ovulo a opera di pollini di tipo diverso

2 ( arch.) corpo di costruzione aggiunto a un edificio dopo il suo completamento e che ne guasta la linea costruttiva originaria

3 ( fig.) aggiunta superflua; ripetizione pleonastica: le superfetazioni della prosa barocca 

¶ Dal lat. mediev. superfetatione(e), deriv. del class. superfetare ‘concepire di nuovo’, comp. di super ‘oltre, in più’ e un deriv. di fetus ‘feto’

martedì 8 luglio 2014

Scout

"Il fiuto per scoutare il business ce l'ha l'imprenditore"

lunedì 7 luglio 2014

Frustrazione

fru-stra-zió-ne

Delusione, umiliazione; insoddisfazione
dal latino: frustratio delusione, da frustrare, derivato dell'avverbio frustra inutilmente.

La frustrazione è un sentimento di profonda umiliazione; si sente come inutile qualcosa che si è fatto, un proprio sforzo, ci si sente atterrati, feriti, in un'insoddisfazione disperata e silenziosa.
Ed è forse questo il connotato più forte della frustrazione: il silenzio. Un desiderio, una vocazione frustrata non è strepitosa - non scoppia, ma ti consuma lentamente; la frustrazione di una vita in cui ti devi ricordare ogni giorno che la tua opinione non conta ti ovatta l'intelletto, ti insonorizza il cuore; e la liberazione dalla frustrazione passa sempre per un'asserzione, per una voce.

http://unaparolaalgiorno.it/significato/F/frustrazione

martedì 20 maggio 2014

Scarpe

Ho fatto l'erasmus, lasciato l'università, ripreso l'università. Mi sono laureata, sposata, separata, ho fatto due figli, vissuto in nove case e cinque città diverse, cambiato otto lavori.

E loro sono ancora qui a portarmi avanti.

domenica 18 maggio 2014

Nostalgia

Breve e doloroso elenco delle cose che mi procurano una fitta acuta di ricordi:
spegnere la sveglia al mattino;
mettere a bagno le orchidee;
vuotare la lavatrice;
ascoltare Varela e D'Arienzo;
spostare il segnalibro da una pagina all'altra, quando studio;
mangiare pesce a cena;
guardare un'ultima volta il telefono prima di dormire;
pensare al mare Adriatico;
evocare la frase "lo stupore del corpo";
indossare stivali o sandali;
....troppe altre che non scriverò.

venerdì 16 maggio 2014

Rimpianto

La scorsa settimana, Internazionale ha pubblicato, nella rubrica Pop, un articolo dal titolo "Cos'è il rimpianto".
È la traduzione di un intervento di Carina Chocano dell'autunno 2013.

E io, che ho perso le parole tanto tempo fa, che non so esprimermi ormai che con le parole degli altri; io, cos'altro posso aggiungere?
Che rimpiango di non averlo saputo scrivere.

venerdì 4 aprile 2014

Google stats

Qualcuno ha trovato il Glossario di bordo cercando su google "espiazione robbie cadaveri ragazze".
Sapevàtelo!

lunedì 31 marzo 2014

Memory and Desire

I. THE BURIAL OF THE DEAD

April is the cruellest month, breeding 
Lilacs out of the dead land, mixing 
Memory and desire, stirring 
Dull roots with spring rain. 
Winter kept us warm, covering  
Earth in forgetful snow, feeding 
A little life with dried tubers. 
Summer surprised us, coming over the Starnbergersee 
With a shower of rain; we stopped in the colonnade, 
And went on in sunlight, into the Hofgarten,
And drank coffee, and talked for an hour. 
"Bin gar keine Russin, stamm’ aus Litauen, echt deutsch."
And when we were children, staying at the archduke’s, 
My cousin’s, he took me out on a sled, 
And I was frightened. He said, Marie,
Marie, hold on tight. And down we went. 
In the mountains, there you feel free. 
I read, much of the night, and go south in the winter. 
 
What are the roots that clutch, what branches grow 
Out of this stony rubbish? Son of man,
You cannot say, or guess, for you know only 
A heap of broken images, where the sun beats, 
And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief, 
And the dry stone no sound of water. Only 
There is shadow under this red rock,
(Come in under the shadow of this red rock), 
And I will show you something different from either 
Your shadow at morning striding behind you 
Or your shadow at evening rising to meet you; 
I will show you fear in a handful of dust.
        "Frisch weht der Wind" 
        "Der Heimat zu," 
        "Mein Irisch Kind," 
        "Wo weilest du?" 
“You gave me hyacinths first a year ago;
They called me the hyacinth girl.” 
—Yet when we came back, late, from the Hyacinth garden, 
Your arms full, and your hair wet, I could not 
Speak, and my eyes failed, I was neither 
Living nor dead, and I knew nothing,
Looking into the heart of light, the silence. 
"Öd’ und leer das Meer." 
 
Madame Sosostris, famous clairvoyante, 
Had a bad cold, nevertheless 
Is known to be the wisest woman in Europe,
With a wicked pack of cards. Here, said she, 
Is your card, the drowned Phoenician Sailor, 
(Those are pearls that were his eyes. Look!) 
Here is Belladonna, the Lady of the Rocks, 
The lady of situations.
Here is the man with three staves, and here the Wheel, 
And here is the one-eyed merchant, and this card, 
Which is blank, is something he carries on his back, 
Which I am forbidden to see. I do not find 
The Hanged Man. Fear death by water.
I see crowds of people, walking round in a ring. 
Thank you. If you see dear Mrs. Equitone, 
Tell her I bring the horoscope myself: 
One must be so careful these days. 
 
Unreal City,
Under the brown fog of a winter dawn, 
A crowd flowed over London Bridge, so many, 
I had not thought death had undone so many. 
Sighs, short and infrequent, were exhaled, 
And each man fixed his eyes before his feet.
Flowed up the hill and down King William Street, 
To where Saint Mary Woolnoth kept the hours 
With a dead sound on the final stroke of nine. 
There I saw one I knew, and stopped him, crying “Stetson! 
You who were with me in the ships at Mylae!
That corpse you planted last year in your garden, 
Has it begun to sprout? Will it bloom this year? 
Or has the sudden frost disturbed its bed? 
Oh keep the Dog far hence, that’s friend to men, 
Or with his nails he’ll dig it up again!
You! "hypocrite lecteur!—mon semblable,—mon frère!”" 
 
[T.S.Eliot, The waste land]

martedì 4 marzo 2014

The Best I Could

Philip Roth, il migliore anche se non scrive

di ELENA STANCANELLI

Philip Roth, il migliore anche se non scrive


"I did the best I could with what I had". Philip Roth ha smesso di scrivere. Lo ha annunciato, spiegato commentato.  Sono passati un po' di mesi e purtroppo non ha cambiato idea. Dà interviste nelle quali racconta che non avrebbe mai immaginato che potesse esserci tanta vita fuori della narrativa. Che studia, nuota, passeggia per la campagna e non ha alcun rimpianto.

Prima di decidere di smettere, spiegava anche ieri in un'intervista pubblicata sul New York Times in occasione dell'uscita del Teatro di Sabbath in svedese, ho riletto tutti i miei 31 romanzi. Volevo capire se avevo sprecato il mio tempo. Non puoi esserne sicuro.

La mia conclusione, una volta finita questa maratona di lettura, riecheggia la risposta data da un uomo, un mio eroe: il pugile Joe Louis. Campione del mondo dei pesi massimi per 12 anni, dal 1937 al 1949,  Joe Louis era un ragazzino nato poverissimo e con una forma misteriosa di difficoltà nel linguaggio. Non proprio una malattia, non proprio un autismo, non proprio dislessia. Semplicemente Joe Louis parlava male e quindi parlava molto poco. Così, quando alla fine della sua lunghissima carriere i giornalisti gli chiedono se si sente soddisfatto, se c'è qualcosa che avrebbe fatto diversamente, se ha dei rimpianti, lui risponde con dieci parole in tutto:

"I did the best I could with what I had". Tradurlo in italiano è un peccato, perché al solito servono molte parole in più e si perde l'incisività. Ma viene più o meno: ho fatto il meglio che ho potuto con i mezzi che avevo.
Ecco, dice Philip Roth, anch'io potrei rispondere così "I did the best I could with what I had".

E poi dice un'altra cosa, rispondendo all'ennesima domanda sul Nobel che non ha mai (ancora) ricevuto: mi domando spesso se avrei incontrato un maggiore favore nell'Accademia di Svezia intitolando il Lamento di Portnoy "The Orgasm Under Rapacious Capitalism" (non fatemelo tradurre, vi prego: è così perfetto).
Grazie Philip Roth. Di qua e di là dalla rabbia sei sempre il migliore.

giovedì 2 gennaio 2014

Ritorno

Dulce Maria Cardoso, Il ritorno
Angola, 1974. La famiglia di Rui ha atteso a lungo prima di andarsene, ma ormai dei loro vicini non è rimasto più nessuno; da un anno le strade sono piene di ribelli, uscire da soli è diventato pericoloso, a volte qualcuno sparisce per non fare più ritorno. Oggi anche Rui e i suoi saliranno su un aereo per la Madrepatria. La giornata scorre lenta, le decisioni ancora da prendere riguardano gli oggetti da portare con sé nel bagaglio, necessariamente leggero, e da abbandonare, magari bruciando quel che resta perché nessuno possa goderne al posto loro. La scelta è semplice per Rui e sua sorella, ancora adolescenti, più dolorosa per la loro madre, debole di nervi e costretta a lasciare dietro di sé i ricordi di una vita. All'improvviso però qualcuno suona alla porta: sono soldati ribelli, che arrestano il padre e lasciano la famiglia attonita e smarrita. Si imbarcano comunque, con l'aiuto di uno zio omosessuale che non intende partire, e diventano "retornados": profughi nel proprio Paese, senza denaro senza abiti e senza un luogo dove andare, sono ospitati a spese dello stato in un hotel lussuoso ma sovraffollato, dove il disordine e il degrado avanzano di giorno in giorno. In questa situazione sospesa, Rui rimpiange gli amici di un tempo e ne conosce di nuovi, si ribella ai professori, corteggia qualche compagna di scuola e fa le sue prime esperienze sessuali; ma allo stesso tempo prova a convivere con il senso di colpa per non essere riuscito a salvare suo padre, e matura la consapevolezza di essere il nuovo capo famiglia e di doversi prendere la responsabilità del futuro proprio, di sua madre e di sua sorella; in una parola, cresce. Il ritorno è dunque un romanzo di formazione, narrato dalla voce dello stesso Rui, con la delicatezza e la cruda violenza della sua età. Illusione di onnipotenza e grande smarrimento, rispetto e tradimento dell'amicizia, ottusa ribellione e senso di responsabilità, desiderio di chiassosa compagnia e ricerca di un posto solo per sé, sfida delle regole comuni e profondo senso di giustizia: tutte contraddizioni che Rui affronta con gli strumenti ancora poco raffinati di un ragazzo, e pure con un disinvoltura che gli permette di destreggiarsi e cavarsela sempre, nella faticosa conquista di se stesso. E pure, ne Il ritorno c'è dell'altro. Fin dall'inizio Rui, ragazzo, intriso di futuro, vive una nostalgia non sua, il rimpianto di una Madrepatria che non ha mai conosciuto. Ascolta i racconti di sua madre, storie di povertà e miseria, e ne coglie - con la nostalgia di luoghi e di persone, e il rimpianto per un clima più vivibile - anche il desiderio per qualcosa di perduto, un futuro luminoso che non c'è stato, e per una terra che sia Casa. Non si fa cogliere dalla malinconia, Rui; sa che suo padre lo vuole uomo, e come lui comincia a costruire un domani solido, certo che la fatica porti la giusta ricompensa. Ascolta su madre, ma anziché riandare a un passato che non conosce, trasforma anche il rimpianto in desiderio per un paese di sogno, dove le ragazze sorridono e  portano ciliegie come orecchini. Poi, il ritorno diventa reale. Non un desiderio o un timore, ma un semplice fatto doloroso; e Rui si trova privato di tutto, del suo nome perfino, nella scuola di un Paese che non lo riconosce, dove lui e gli altri come lui si equivalgono e possono, devono rispondere al nome di Retornados. Ritornati. Proprio loro che in Madrepatria non erano mai venuti, loro nati e cresciuti altrove, loro che altrove esistevano e avevano un futuro e che qui ne sembrano privati. Retornados, reduci di un viaggio a ritroso, dalla terra dove qualunque cosa fiorisce a un luogo grigio e freddo e spoglio, che non li vuole. È una cosa da vecchi, il ritorno, spetta a chi ha già vissuto. Scelta coraggiosa, quella di farlo raccontare a chi vive il tempo mobile di quando si è ragazzi, che sfugge sempre in avanti, o all'indietro, senza lasciarsi mai cogliere.