sabato 29 agosto 2009

Forme

Le forme non sono semplici orpelli! Le forme sono sostanza!!!

Non l'ho detto (...esclamato) io; però sono d'accordo.

domenica 16 agosto 2009

Vacànza / Mancànza


Vacànza
  1. Stato o condizione di ciò che è vacante
  2. Periodo di interruzione delle normali attività lavorative
  3. Periodo in cui restano chiuse le scuole
Ma allora perché la parola vacanza evoca anche il significato di mancanza?

Mancànza
  1. Assenza. Il fatto che qlco manchi o non ve ne sia a sufficienza; scarsità, penuria, carenza
  2. Fallo. Infrazione alle norme sancite dal regolamento di disciplina militare
  3. Imperfezione, errore
  4. Mancamento, svenimento
Sarà forse un caso di paraetimologia, come se vacanza derivasse da vacuum.
Al contrario, quando sono in vacanza non mi manca niente; e soprattutto, non sento di mancare a me stessa, né di mancare nei confronti di nessuno, né di alcuna regola. Forse qualche mancamento, quello si, ma è il caldo... Nell'insieme, la vacanza è per me un momento di pienezza.

E pure, tempo fa un amico (perché gli amici delle mie amiche sono miei amici) di ritorno dagli USA raccontava le sue avventure: "Ora però, vado in vacanza!"

A suo avviso, infatti, quello appena concluso era un viaggio; e come obiettare? Mentre la vacanza vera è fatta di immobilità e silenzio.

Allora? E' tutta una questione di punti di vista? Cosa abbiamo davvero in mente quando andiamo in vacanza?
Abbiamo tempo, per pensarci. Agosto è quasi finito, più o meno tutti siamo tornati al lavoro.
Parleremo anche di questo.

lunedì 3 agosto 2009

Rispetto e Semplicità

Ho ricevuto un libro da un amico, che me l'ha spedito con ogni cura.
Sulla busta imbottita, in basso, in corpo 8 e 6, si legge (o almeno ci si prova):

I prodotti Posteitaliane rispettano
i criteri della raccolta differenziata.
Per permettere la raccolta differenziata, dopo l'uso,
separare la carta dalla plastica.
To dispose, simply separate paper and plastic.
Veiller à l'environment, en séparant simplement le papier
du film aprés l'utilisation de la pochette.
Zum Entstogen einfacht trennen Papier und Kuntststoff.

Ho provato a separare carta e plastica: impossibile!!!
La busta, stropicciata ma integra, sta ancora sulla mia scrivania. Se volete, potete tentare anche voi.

Almeno, in italiano non c'è scritto semplicemente...

mercoledì 29 luglio 2009

Orange juice


1.
"Buongiorno, Emily. Hai dormito bene?"
Sulla tovaglia a quadri ci sono già pane tostato, burro, marmellata e tre tazze di caffè.
Prendo dal sacchetto dieci arance e le allineo sulla credenza, accanto allo spermiagrumi e ai
cinque bicchieri.
Ieri pomeriggio me ne stavo, spalle al muro, nel mio angolo dell'aula di pittura. Da lì posso
vedere chiunque entri o esca, il che spesso mi distrae, ma è sempre meglio di dare le spalle
a tutti, sentirsi osservata e non sapere da chi. Un po' di carminio, del bruno Van Dijk,
tentavo di rifare una pennellata à la Rubens; ed ecco il prof. Stiller, il mio tutor. Certi giorni
non c'è verso di lavorare; in ogni modo, meglio lui che un altro. Sembrava contento.
Arriva, mi parla dei corsi estivi alla scuola di grafica di Venezia, di una borsa di studio, dei
miei lavori dello scorso semestre... Non lo seguo, perché vuole che li presenti? Sono solo
compiti, magari ben fatti, ma niente di originale. E lui, tutto eccitato, "Non mi sono
spiegato! Ho già proposto i tuoi lavori, e oggi la Fondazione ha pubblicato i risultati delle
selezioni. Non sei contenta?". Contenta, di cosa? A quanto pare, hanno già deciso tutto: la
borsa copre vitto, alloggio e frequenza ai corsi, la scuola mi fa un prestito per pagare il
viaggio, da restituire più avanti, dopo il diploma... Ma perché nessuno chiede il mio
parere?
Prendo la prima arancia a sinistra, la taglio; ne spremo metà, quindi l'altra metà, poi
appoggio le bucce a destra, in fondo alla fila. Seconda arancia, un bicchiere è pronto; lo
appoggio sul vassoio e riprendo il coltello.
Stiller dà per scontato che sia una splendida notizia; e, certo, è un'opportunità unica.
Qualunque studente d'arte vorrebbe essere al mio posto... ma il mio stomaco si rifiuta di
collaborare. Da ieri sera ho la nausea. Venezia... San Marco! Cinque cupole su pianta a
croce greca, le mura ricoperte di marmi razziati durante le Crociate, le porte di bronzo, i
cavalli. Il mosaico con il corpo del santo, gli intrecci di pietra in stile moresco, il pastore
scolpito ad immagine di Ercole. Uno stratificarsi di arti, di stili e di culture fuse l'una
nell'altra in un'opera di bellezza miracolosa, una sfavillante enciclopedia del Cristianesimo.
Terza arancia, spremiagrumi, bicchiere, quarta arancia. A Venezia starò bene. Perché non
dovrei? Non sarò sola, magari verrà anche Stiller, non glie l'ho chiesto. Ero stordita. Ieri
sera, alla bottega di Mr Fiorelli, ho urtato una pila di cassette e l'insalata è finita a terra, e
anche il mio sacchetto di arance. Oggi è fine mese, devo ricordarmi di chiedergli il conto.
Quinta arancia; sesta. Passeggio con gli occhi socchiusi sulla riva, carpisco il segreto del
riverbero della luce sull'acqua. Anche la mamma, a cena, era tutta entusiasta. Prima
pensava che avessero selezionato i miei lavori per una mostra. Mamma, non è una mostra.
E' una borsa di studi.
"Ma stai per diplomarti... Studierai ancora, Emily? Forse alla tua età sarebbe ora di..."
No, mamma. Aspetta. E' una borsa di specializzazione, ma breve. A Venezia.
Silenzio. Mamma sgrana gli occhi:
"...Venezia!!!?! Ragazzi, venite! James... Venezia! Che bello Emily, che splendida notizia!
James vieni a sentire! Harry, Ernest, la cena! Ragazzi!!!"
Poi mi dà un bacio dei suoi, che si sente lo schiocco fino in camera, e se ne va ridendo. A
volte fa così; se ce l'avessi anch'io, il suo buon umore...
Altre due arance e ho finito. Io invece sono stanca, ho passato la notte a rigirarmi nel letto.
Destra: la tenda blu scuro che ondeggia nella penombra, qualche luce e rumori dalla strada.
Un semestre è lungo... non ho mai messo piede su un aereo... a Venezia ci sarà un
aeroporto? O dovrò prendere la nave? Sinistra: altra luce che filtra sotto la porta bianca, la
scrivania lo scaffale la sedia, bianchi. Tiziano, la luce dell'inizio, le pennellate lunghe e
nervose degli ultimi anni. Le quarantatré tele di Tintoretto alla Scuola di San Rocco. Le
ombre degli affreschi di Giorgione sui muri esterni dei palazzi. Ho letto da qualche parte
che non si è mai stati a Venezia se non ci si arriva dal mare; dunque, andrò in nave.
Ultimo bicchiere. Raccolgo le bucce e le getto tutte insieme nel bidone. Svito lo
spremiagrumi, lo lavo, bagno lo straccio sotto il rubinetto, lo passo sulla credenza. Sollevo
il vassoio, mi giro, lo appoggio sul tavolo.
"...hai dormito bene?"
Incrocio lo sguardo di mia madre, le sorrido.
"Si".
2.
Ci siamo, si parte.
Mamma, con il vestito scollato a fiori rosa e verdi, oggi è un po' nervosa anche lei, sorride e
parla a voce alta. Uscendo di casa se n'è accorta, che stavo zitta più del solito, e che non mi
sono voltata indietro a guardare. Starò via sei mesi, non è poi tanto. Però, che rabbia, in
queste settimane ho lavorato così male! Venti risposte sbagliate al test finale di Arts
History, io!!! E la copia da Rubens, nemmeno al primo anno mi sarebbe riuscita così
posticcia. Poi, volevo riprendere quei ritratti in seppia, si possono migliorare, ora ne sarei
capace, e invece ho perso tutto questo tempo a preparare i bagagli, a correre per negozi, a
preoccuparmi, e ora non ci lavorerò più almeno fino all'anno prossimo, ma chi me l'ha fatto
fare? Perché dovrei andarmene, ho ancora tanto da lavorare, qui, piuttosto sarebbe il
momento di trovare uno studio tutto per me, e cominciare a fare sul serio...
Arrivati all'aeroporto, James è stato gentile, ha controllato sul giornale le previsioni del
tempo, mi ha portato il bagaglio. Hanno chiamato il mio volo, imbarco immediato. Con la
mano in tasca, accarezzo un'arancia lucida e rotonda; la mangerò più tardi.
3.
Chi non ricorda la prima volta che ha visto l'isola che non c'è? Quando da piccolo,
premendo forte le mani sugli occhi, si è detto: "Se riesco a restare fermo immobile, senza
dire niente, se non sento nessun rumore e non ho paura, allora..." Allora, le chiazze di luce
iniziano a colorarsi e prendono forme mutevoli di nuvole, e i sogni diventano realtà.
L'aereo attraversa l'ultimo strato di nubi, macchie di azzurro e di verde emergono dalla
foschia, diventano più nitide, fino a quando nel mezzo della tavolozza lagunare compare il
mosaico di isole che compongono il pesce: Venezia.
Il bagaglio è pesante, vedo solo i miei piedi che ad ogni passo toccano quasi le minuscole
rotelline del trolley davanti a me. Appoggio lo zaino, prendo fiato, respiro una brezza
satura di sale e di polline. Dal motoscafo, la distesa d'acqua e isole pare un deserto, un
nulla, fatto apposta per perdersi; e quell'isola spettrale e selvaggia, più grande delle altre,
fitta di alberi soffocati dall'edera, senza alcun edificio... sembra la negazione dell'idea di
Venezia. Chissà se a Venezia ci sono degli alberi.
Ho sempre pensato a calli e campielli sospesi in un silenzio irreale, come se fossero
popolati solo da nobili settecenteschi e servette da commedia. Invece, ora che sono scesa a
terra -si dirà così?- e tento di orientarmi con la mappa, i miei occhi stentano ad abituarsi
alla nuova luce; sono nuovi il profilo degli edifici, i percorsi mai rettilinei che i miei piedi
imparano poco a poco a percorrere, nuovi gli sguardi delle persone che incrocio, che
guardano e si lasciano guardare. E del tutto inattesi, per me, sono la folla e il rumore, che
aumentano passo dopo passo. Un gruppo di giapponesi mi inghiotte, seguono una ragazza
bionda dai grandi occhi chiari, che parla con un improbabile accento stridulo da orientale.
Tento di svincolarmi dall'onda, e mi ritrovo in una marea di donne d'ogni foggia e d'ogni
taglia, che trascinano borse voluminose o pratici carretti. Questa volta non oppongo
resistenza, mi lascio trasportare e mi trovo al mercato della frutta di Rialto: una distesa di
banchi carichi di ogni genere di ortaggio e vegetale, e dietro ogni banco i venditori che
richiamano ad alta voce le clienti:
"Bella merce, via, andiamo donne!"
Parlano veloce, capisco appena.
Il selciato è umido e disseminato di foglie e di resti di frutta sbocconcellata; a tratti
qualcuno fa pulizia spruzzando il terreno con tubi di gomma verde, attaccati chi sa dove. Il
vociare è continuo. Sui banconi si alzano piramidi di mele, incorniciate da luccicanti
confezioni di frutta candita - albicocche, e poi mango, papaya e magnifici pezzi di zenzero
zuccherato. Fette di cocco sbucciate attendono sotto l'acqua di una fontanella. Pendono
dall'alto caschi interi di banane.
Altri banchi espongono soprattutto verdura, cuori di lattuga verde chiaro brillante, rucola
verde scuro, cipolle bianche grandi oppure rosse, più minute, patate rosse e gialle di
Sant'Erasmo, e poi zucchine allineate nelle cassette, montagne di fagiolini, e ancora
melanzane, sedani e carote. Spero di ricordare sempre questa tavolozza brillante, e le ceste
piene di pomodori maturi. Pomodori da insalata, tondeggianti, grandi, sodi, di colore rosato
e verde, a spicchi poco marcati. Pomodori nostrani. Pomodori cavallino, lunghi e irregolari.
Pomodori siciliani. Pomodori a grappolo, pomodori piccadilly. Pomodori cuore di bue,
molto grandi, a spicchi sottili. Pomodori cirio, ciliegino, datterino, tutti rosso brillante e
perfettamente rotondi, suddivisi per diametro, come perline passate al setaccio.
Le tende verdi stese tra i banchi di frutta non bastano a proteggermi dal sole di luglio, vedo
tutto girare, troppo veloce, troppo rumoroso. Vedo attraccare una gondola; non ha i velluti
né ori, è una lunga pennellata nera attraverso il Canal Grande. Scendono svelte altre
signore, portano borse, passeggini, carrelli e si muovono sicure sulle strette passerelle di
legno. Finalmente, vicino alla riva, vedo un banco ordinato e composto, piccolo,
sorvegliato da un uomo silenzioso, intento a ripulire dei carciofi. E finalmente, fuori
stagione, anche delle arance.
4.
I primi giorni a Venezia sono stati frenetici; e conoscere Andrea, il mio tutor italiano, mi ha
fatto venire nostalgia: com'era elegante Mr Stiller, longilineo pallido allampanato, capace
con brevi cenni di rendere partecipi anche noi studenti della magia impalpabile
dell'immateriale, coinvolgerci nel mistero dell'arte che nasce dalla sostanza pittorica.
Andrea: basso, tarchiato, completamente calvo, ride troppo. Sembra entusiasta; ma di cosa?
Nel primo quarto d'ora si è già preso confidenze che Stiller non si permetterebbe mai: ha
chiesto dettagli delle nostre vite private, verificato lo stato delle unghie di alcuni, ha perfino
espresso apprezzamenti su un paio delle ragazze presenti, tra gli schiamazzi e le risate
generali. Dovrò cavarmela da sola.
Sono ancora spaesata, ma somiglio sempre meno a una turista. Con il passare delle
settimane ho capito che a Venezia il pittoresco è sempre in agguato. Tutto sembra poetico.
Tutto rischia di diventare cartolina. I gabbiani si aggirano con affettata indifferenza,
afferrano voraci tutti gli avanzi, fanno pulizia. Pescatori giovani e vecchi si affaccendano a
scaricare casse di pesce, tra le urla minacciose di chi, nei barconi vicini, attende il proprio
turno. Turisti mattinieri vagabondano per le calli; ragazzine magre, sedute su uno scalino a
scrivere, indossano gonnelline da poco e gioielli di legno colorato; studenti di pittura come
me, disegnano. Tutti a cercare di cogliere il segreto, e portarne qualcosa con sé.
Sto imparando l'italiano. Mi aggiro per il mercato del pesce e ripeto tra me i nomi delle
merci, scritti a penna su umidi pezzi di carta. Rombo dorato. Verdesche fresche. Canocce
piene. Scampi grossi freschi da crudo. Cappesante vive con corallo. Branzini selvaggi
pescati. Fólpi, bòvoi, déntici. Un'enorme testa di pesce spada mi osserva con stupore, il
rostro proiettato verso l'alto. Percorro con lo sguardo le file di sarde e di spigole, osservo
gli sforzi vani di gamberi e aragoste per liberarsi dei legacci che ne immobilizzano le chele.
Ascolto le grida dei venditori che incessanti mi invitano a comprare; poi, al mercato della
frutta, sempre allo stesso bancone, acquisto un’arancia, una sola. La sbuccerò nel
pomeriggio, prima di mettermi al lavoro.
5.
Col tempo sono riuscita, come a Boston, a conquistarmi un posto tranquillo, in fondo alla
sala comune, spalle al muro. Gli altri studenti non ci sono, qualcuno è ancora a pranzo, altri
bevono un caffè prima di riprendere il lavoro. Osservo le tele dei miei compagni. Studio la
luce ormai grigia, autunnale, dietro le vetrate. Abbottono il camice. Controllo che i pennelli
siano allineati; uno si è spostato, lo sistemo. Lavoro molto, mi impegno; i professori mi
apprezzano, qualche gallerista ha alzato un sopracciglio davanti ai miei lavori, mi accorgo
anch’io dei miei progressi. Ma sono ancora semplici esercizi, presto i nodi verranno al
pettine.
Molti dei miei compagni sono a buon punto con l'opera di fine corso, ne parlano, si
confrontano; mentre io continuo a non avere alcuna idea su cosa presentare. Sono
preoccupata. Anche la notte scorsa ho dormito male. Vorrei cancellare i pensieri, intanto mi
scosto dalla fronte una ciocca di capelli. Pennello, colore, un passo indietro per osservare la
tela, traccio qualche segno; non sono convinta. Cerco la mia solita arancia, ormai
sbucciarne una prima del lavoro è diventata un'abitudine, mi aiuta a concentrarmi. Ma oggi
va tutto storto, l'ho dimenticata.
Esco stizzita e mi avvio al mercato, so già che a quest'ora non troverò niente. Ascolto sul
selciato il ritmo del mio passo che con i mesi è diventato svelto, regolare, veneziano.
Lascio correre anche i pensieri, fino a quando non penso più, lascio che le immagini si
svolgano da sé, assisto allo spettacolo della città non più smaltata dal riverbero estivo, ma
resa vaga da un principio di nebbia, dall'umidità sospesa che sfuma i contorni. E a un tratto,
nella luce sbiadita, ecco un'immagine che emerge e si definisce, netta, brillante. L’arancia.
La mia solita arancia. Ma certo!
Devo trovare subito due tele. Tre. Tre tele piccole. Corri, Emily! Il negozio di colori è
dietro l’angolo. Ho dimenticato di togliere il camice, ma non importa, torno subito. E’
chiuso!! Riapre alle cinque, troppo tardi, non posso aspettare. Devo trovare Andrea. Per
fortuna adesso ci capiamo un po’ meglio. Cerco nel laboratorio, nell'aula professori, negli
uffici; Andrea non è in mensa, non è nel cortile.
"Un quarto d'ora fa era alla Cantina... forse lo trovi ancora."
Mi dimentico di ringraziare e corro verso il bacaro. Lo vedo già dall'esterno, il profilo
ritagliato nel rettangolo luminoso della porta sul retro; è seduto a un tavolino di legno
scuro, su cui si affollano piattini vuoti, tovaglioli di carta bisunti, dozzinali bicchieri di
vetro e brocche di varie misure.
"Ho bisogno di sette tele quadrate."
Andrea ride ancora dell'ultima battuta di un collega; sta mangiando un crostino al baccalà e
beve vino. Rosso.
"Andrea... ho bisogno di sette tele. Adesso"
Mi guarda sorridendo, annuisce e volta di nuovo lo sguardo verso i colleghi. Ma allora non
capisce! Ho un moto di impazienza, lo prendo per una manica:
"Andrea! Ascoltami. Ho bisogno di sette tele quadrate, piccole. Tutte uguali. Ne ho
bisogno subito!!"
Finalmente sembra aver colto l'urgenza. Si è alzato, mi segue fino alla porta, usciamo. E’
curioso, mi osserva mentre avanziamo insieme a grandi falcate verso la scuola, lui col
pensiero ancora al pranzo lasciato a metà; ma ora non ho tempo di spiegare.
A scuola, il custode non c'è; sarà a pranzo anche lui. Andrea si affaccia nella guardiola,
cerca tra i mazzi di chiavi appesi al muro, ne prende uno, quindi attraversiamo il cortile sul
retro, proviamo alcune chiavi e finalmente la porticina si apre, possiamo entrare. Il
magazzino è piccolo e chiuso da tempo; cerchiamo al buio fra lavori di studenti ormai
adulti, attrezzi pesanti da scultore, cavalletti rotti, capitelli in pietra, grandi fogli di cartone
arrotolati, tutto appiccicoso di polvere e umidità; troviamo anche alcune tele inutilizzate,
ma sono troppo grandi, troppo vecchie, i telai deformati dall'acqua e incrostati di sale.
Scaviamo ancora e finalmente, sopra uno scaffale, ecco quello che ci vuole: tele quadrate,
candide e intatte. Esco nel cortile, ne verifico meglio lo stato, le conto. Ci sono tutte! Rido,
abbraccio Andrea, ma che mi prende oggi? Lo lascio a chiudere e riordinare, e corro verso
il laboratorio con il mio preziosissimo bottino.
6.
Oggi pomeriggio, l'appuntamento è alla Giudecca. Soffitto basso, odore di solvente,
cavalletti, tele, foto appuntate al muro. Alcuni colleghi sono già arrivati e armeggiano
intorno alle proprie opere; pochi ridono, qualcuno parla brevemente con i compagni. La
tensione ha contagiato tutti. Ecco le mie scatole, un barcone le ha portate questa mattina
con i lavori degli altri; mi sono assicurata mille volte che le tele fossero ben protette, che
l'acqua e gli scossoni non potessero fare danni, ma mentre tolgo il pluribol mi sudano le
mani.
Per settimane ho lavorato con frenesia. Ho interrotto le visite a musei e gallerie, ho ottenuto
il permesso di accedere al laboratorio anche di sera e la domenica, quando la scuola è
chiusa. Ho anche saltato alcune lezioni. Ma, passata la febbre creativa, sono tornata la
stessa di sempre; e ora che si tratta di parlare in pubblico, di mostrare la mia opera, di
illustrarne il senso e il valore, sono di nuovo nel panico. Nell'aula dove si svolgerà la
presentazione, il cranio gotico di Andrea sorge in tutto il suo splendore, e il suo abbraccio
da facchino mi accoglie con affetto. Tra il pubblico siedono amici, qualche genitore venuto
da lontano, i docenti, alcune signore veneziane troppo agghindate, un paio di giornalisti. Il
direttore dà il benvenuto, quindi Andrea proietta sul muro i propri video: Andrea in primo
piano, truccato da clown, fuma un enorme joint; Andrea sotto la doccia, che canta un brano
d'opera; Andrea distrugge un divano a calci e pugni; due energumeni vestiti di bianco
tentano di infilare Andrea, nudo, in un congelatore; Andrea introduce un incontro di boxe
con tre pugili. Andrea si gratta la testa.
Dopo un lungo silenzio e alcune domande, tocca a noi. I miei colleghi sfilano uno dopo
l'altro, chi imbarazzato chi istrionico, raccolgono la dose giusta di applausi e di
incoraggiamenti, tornano a sedersi tra le pacche sulle spalle e le gomitate degli amici. E
arriva il mio turno. Ho i capelli raccolti, una lunga gonna nera, il giacchino beige. Tutto in
ordine. Salgo gli scalini a passetti veloci, guardando fisso verso un angolo della pedana. Un
insegnante mi passa le tele, coperte; Andrea mi aiuta ad appenderle al fondale. Proviamo ad
allinearle, ma il risultato è pessimo. Rinuncio. Valuto l'effetto, e mi viene da piangere, ma
raddrizzo il collo e la schiena, prendo fiato, mi giro. Le luci dei faretti mi accecano, non
vedo il pubblico; dopo tutto, è quasi come essere sola.
"Mi chiamo Emily Mc Even, vengo da Boston. Il lavoro che presento oggi consiste in una
serie di nature morte molto tradizionali, dipinte a olio; deve molto anche all'insegnamento
del mio tutor italiano. Ho voluto girare un video con i pennelli; e il soggetto è qualcosa che
mi ha aiutata, in questi mesi a Venezia, a governare la mia paura"
Forse tutti hanno paura; ma io ne ho molta. Me ne sono difesa come ho potuto: la routine
mi ha sempre rassicurata, e all'idea di venire a Venezia, la mia prima reazione è stata di
panico. Avrei dovuto allontanarmi dalla mia famiglia, dalla scuola, dalla sicurezza del
giudizio dei miei insegnanti. Panico è stato a lungo; fino a quando ho intuito che, forse,
avrei potuto portare con me una piccola abitudine, qualcosa in grado di assumere in sé il
significato di ogni altra certezza.
Tolgo il lenzuolo, svelo le sette piccole tele quadrate.
Sulla prima, appoggiata su una tovaglia bianca e ritagliata su uno sfondo indefinito color
sabbia, ecco un'arancia. E' piena, lucida e rotonda; se ne può intuire la buccia spessa, pare
quasi di sentirne il peso. A guardare bene, se ne coglie ogni irregolarità, ogni minimo
avvallamento. E' bella, luminosa, da far venire l'acquolina.
Seconda tela: la buccia dell'arancia è stata incisa, a delimitare degli spicchi regolari. Le
fessure sono sottilissime, quasi completamente chiuse, si notano appena. Un solo spicchio
di buccia si discosta, di poco, dal frutto, e lascia visibile una sorta di ferita sottile, uno
spiraglio da cui si intuisce il biancore spugnoso delle fibre all'interno.
Terza tela: l'arancia è completamente sbucciata, e ancora intera. Troneggia nel mezzo del
fiore composto dagli spicchi di buccia, divaricati fino quasi ad appiattirsi sulla tovaglia. E'
monumentale nella sua simmetria, coperta di filamenti chiari e opachi. Mentre la osservo,
mi sento nuda anch'io, intuisco solo ora di aver dipinto un autoritratto. Non oso controllare
che nessuno se ne sia accorto, devo essere arrossita come nei momenti peggiori.
Quarta tela: la buccia è sempre aperta ed appiattita, ma l'arancia è spezzata. Manca uno
spicchio, e le due mezze arance giacciono una accanto all'altra, ancora quasi simmetriche;
in un punto la pellicola si è aperta e la ferita questa volta è rossa, viva.
Quinta tela: rimane mezza arancia soltanto, appoggiata un po' obliqua sulle bucce
scomposte. Dalla ferita esce una goccia di succo rosso e denso; la tovaglia è macchiata e
disseminata di frammenti di fibre colore del latte, quasi invisibili.
Sesta tela: le bucce sono ormai in disordine, la macchia sulla tovaglia è diventata un alone
rosato. Ci sono ancora due spicchi, di un altro c'è solo un pezzo e se ne vede colare il
succo, una macchia di colore scuro e intenso nel mezzo del piccolo dipinto.
Settima tela: dell'arancia rimane soltanto un mucchietto di bucce. La tovaglia è macchiata
in diversi punti; delle bucce, si intravvede appena il colore vivo all'esterno, e per il resto
tutto è bianco e neutro. Pare tornato il silenzio.
Anche la platea tace, per alcuni secondi. Quindi, qualcuno comincia lentamente a battere le
mani, e scoppia un applauso. Sento i fischi di entusiasmo dei colleghi, è un successo.
Arrossisco, guardo di nuovo verso il basso. Però sono contenta.
7.
L'aereo vola ormai da diverse ore. Dormo un poco, ma è un sonno leggero; e, nel
dormiveglia, sorrido.
"Beve qualcosa?"
Mi riscuoto di soprassalto. La mano corre alla tasca, è vuota. Certo…
"Succo d'arancia"
Scendo dall’aereo, ecco il bagaglio, e l'uscita. Le porte scorrevoli sembrano un sipario, che
si apre su... cosa? Assisterò allo spettacolo della mia famiglia che mi accoglie, o sarò
invece la prima attrice, e loro gli spettatori? Eccoli. Mi hanno vista. Mamma non sta nella
pelle, si fa strada, aggira le corsie, mi viene incontro per prima. James sorride tra sé e la
segue. Ci sono anche i ragazzi; Ernest mi saluta con un cenno e un sorriso, Harry finge di
non avermi ancora vista, o che non gli importi; troppa emozione per lui. E dopo sono
abbracci, occhiate curiose, una domanda in sospeso: sarà sempre Emily, questa giovane
donna che torna a casa? Resterà tutto com'era una volta? Per tutta la sera rimango al centro
di un turbine di domande. Solo dopo cena, finalmente, riesco a riposare; ma sono stanca e
frastornata, stento a prendere sonno. E in un attimo è mattina.
"Emily..."
Mi giro su un lato.
"Emily... sei sveglia?"
Certo mamma che sono sveglia, adesso.
"...hmm..."
"Coraggio, sennò chi mi compra le arance?"
E' il suo modo di farmi sentire di nuovo a casa. Resterei volentieri a letto, ma conosco bene
le regole non scritte della mia famiglia: early to bed and early to rise... Mi alzo lentamente,
faccio la doccia, mi vesto ed esco. Percorro i due isolati che separano il portone di casa
dalla bottega di Mr Fiorelli. Tutto è come sempre ma tutto è nuovo. Sarà la lunga assenza,
che fa sembrare estraneo il mio quartiere. I colori sono più vivi, gli odori più intensi, i
contorni più netti. All’ultimo incrocio, un particolare stonato mi fa rallentare il passo;
controllo l’orologio, sono le nove passate, perché è chiuso? Non c'è nemmeno una cassetta
di ortaggi all'esterno, la serranda è abbassata.
Ancora qualche passo, e riesco a leggere il cartello scritto a penna che avverte: 'Chiuso per
lutto'.

mercoledì 8 luglio 2009

Fuoco!

In un paese, durante una processione, la statua della Madonna viene colpita e distrutta da ripetuti colpi di arma da fuoco. Mentre la gente fugge, intervengono le forze dell'ordine che circondano la casa da dove sono partiti gli spari. In una abitazione di poche stanze c'è il colpevole, Mario, che vive con la moglie e la piccola figlia, atterrita dalle detonazioni, mentre in un angolo giace il corpo inanimato di una persona. Mario passa le sue ore caricando le sue armi, o scrutando dalle finestre i movimenti della polizia e scaricando ogni tanto qualche colpo sulla piazza. Le continue e ripetute esortazioni di un carabiniere del paese sembrano non avere effetto sul giovane, che dà l'impressione di voler resistere a lungo. Alle prime luci della mattina però Mario si decide e, dopo aver ucciso la moglie, affida la bambina ai carabinieri e si arrende.

Questa, laconicamente, la trama di Fuoco! (anche qui) di Gian Vittorio Baldi, film del 1968 recentemente restaurato dalla Cineteca di Bologna e pubblicato con un bel volume di apparato e commento. In un'intervista recente, inclusa nel dvd, Baldi lascia intendere che il film - realizzato in soli 14 giorni di riprese in presa diretta ma pensato, prima, per anni - parli appunto del 1968, dell'esplosione di energie represse e poi giunte a saturazione, della violenza contro la società e le sue istituzioni. Il regista interpreta dunque Fuoco! come film politico.
Certo gli indizi in questo senso sono molti. All'inizio dell'azione, un primo atto di violenza si è già compiuto, diretto verso la famiglia: Mario ha ucciso la suocera, che giace a terra senza poter essere compianta. Quindi, il protagonista si rivolge contro la chiesa, sparando alla statua della madonna in processione - scena esplicita al punto di perdere ogni aspetto simbolico, e da risultare puramente rappresentativa. Infine, ecco la violenza contro lo stato, che prende la forma del silenzio, della non-considerazione.

Ma Fuoco! è anche un film sulla tragedia della violenza, sulla necessità del male. Mario uccide sua moglie; perché lo faccia, non ci è spiegato mai. Le carezze nel sonno, denudarla per vederne un'ultima volta le forme (la schiena sensuale e arcaica, anche in una donna distrutta e abbrutita dalla paura, dalla violenza), avvolgerla in un sudario prima di sparare, non sono gesti d'amore? Mario non avrà forse ucciso per proteggere? E se affida la bambina ai carabinieri, non sarà perché non trova il coraggio di sparare anche a lei? Per un momento sembra sul punto di farlo; ma poi il pianto lo ferma, desiste. Mario è un uomo qualunque, né più buono né più violento di altri, solo per caso si trova all'interno di quell'appartamento e non fuori, tra gli altri. Come tutti, per necessità recita il ruolo che gli è toccato in sorte.
E forse è proprio la sua debolezza nel recitare fino in fondo la sua parte, forse è questa la sua colpa. Non spara alla bambina, non la salva; e decide di pagare il suo debito arrendendosi, e consegnandosi, nudo, al mondo.

L'abbiamo visto qualche sera fa, nel salotto di casa, insolitamente quieto.
Per caso, alla fine, alla tv stava cominciando Un giorno in pretura. Confronto disarmante. Era il 1953, e già veniva ucciso il neorealismo; scomparsi i personaggi, per lasciar posto alle macchiette. Niente più persone, entrano i personaggi, e poi titoli di testa, titoli di coda, nomi degli attori. Star! E germogliano le radici del qualunquismo italiano.

A passare da Fuoco! a Un giorno in pretura, sembrava di fare un percorso al contrario. E viene da chiedersi ora, se ci sia un'alternativa tra il lasciarsi scivolare in una vita in farsa, e l'attendere che la violenza esploda un'altra volta.

martedì 30 giugno 2009

Sicurezza...

...e insicurezze. Se n'è parlato qui.

Sinistre rovine

"Ahimé abbiamo questa sinistra che si dovrebbe vergognare di quello che fa e invece è la rovina del Paese".

Chi l'ha detto?
(Un suggerimento: la definizione è di oggi, a commento di una rumorosa manifestazione di disoccupati napoletani).

giovedì 25 giugno 2009

Pùbblico (I have a dream)

Aggettivo.
1. Che concerne, che riguarda la collettività: la pubblica utilità.
2. Che è di tutti: voce pubblica, opinione pubblica.
3. Che è accessibile a tutti, che tutti possono utilizzare: luogo pubblico, locale pubblico.

Sostantivo maschile.
1. Numero indeterminato di persone considerate nel loro complesso e aventi spesso interessi comuni in quanto frequentano uno stesso luogo, assistono a un medesimo spettacolo ecc: il teatro è affollato da un pubblico inquieto.
2. +Comunità, comune, stato.
3. Il settore pubblico dell'economia: la concorrenza tra pubblico e privato.


Pubblico deriva dal latino publicus , che viene da populum. Popolo.
Insomma, noi.
Vuol dire che la cosa pubblica è nostra, di tutti.

Ma allora com'è che, se dico pubblico, l'immagine che mi balena davanti agli occhi è quella di una folla azzurrina e inebetita che applaude a comando, che delega ad altri il proprio stato d'animo, le proprie opinioni, il proprio pensiero? Che fine ha fatto la responsabilità che nasce dal possedere una cosa, la cosa pubblica appunto?
Un pubblico così non è più fatto nemmeno di spettatori: perché lo spectator osserva con attenzione, è imparziale nel raccogliere le informazioni e critico nel rielaborarle; mentre questo pubblico è di bocca buona, si limita a vedere, a prendere atto, e a lasciarsi contare.

Mi piacerebbe che pubblico fosse più aggettivo che sostantivo. Mi piacerebbe che il significato "comunità, comune, stato" non fosse arcaico e in disuso. Mi piacerebbe vedere più teatri pieni di pubblici inquieti, vedere pubblico e privato concorrere, correre insieme verso un solo obiettivo. Possibilmente pubblico, di interesse comune.

martedì 23 giugno 2009

GAS

"I Gruppi di Acquisto Solidali (G.A.S.) nascono da una riflessione sulla necessità di un cambiamento profondo del nostro stile di vita. Come tutte le esperienze di consumo critico, anche questa vuole immettere una «domanda di eticità» nel mercato, per indirizzarlo verso un'economia che metta al centro le persone e le relazioni.": così recita la home page di ReteGas.
Un po' più fredda, ma comunque precisa, la Finanziaria 2008 che li riconosce: "Sono definiti «gruppi di acquisto solidale» i soggetti associativi senza scopo di lucro costituiti al fine di svolgere attività di acquisto collettivo di beni e distribuzione dei medesimi, senza applicazione di alcun ricarico, esclusivamente agli aderenti, con finalità etiche, di solidarietà sociale e di sostenibilità ambientale, in diretta attuazione degli scopi istituzionali e con esclusione di attività di somministrazione e di vendita."

Dopo qualche mese di vita in provincia - da oggi ci proviamo anche noi.

mercoledì 17 giugno 2009

Intercettazioni

Il post di ieri parlava della punta di un iceberg.
Qui, e qui, alcuni interessanti, e preoccupanti, aggiornamenti del dibattito.

martedì 16 giugno 2009

Blog

Tra poco più di un mese, i blog compiranno dodici anni di vita: da dodici anni è a disposizione di tutti, o almeno di chiunque abbia accesso a una connessione a internet, uno strumento con il quale pubblicare le proprie opinioni e cercare il confronto con gli altri, che non necessariamente si troveranno d'accordo.

La litigiosità infatti trova spazio in rete almeno quanto altrove: on line si può trovare facilmente traccia di accesi dibattiti sugli argomenti più diversi e, come nella "vita reale", il livello di approfondimento, di serietà, di onestà intellettuale degli interventi è assai vario.
In alcuni casi, il blog è tematico e il blogger è un professionista: ci sono ottimi blog curati da giornalisti, da scrittori, da cuochi, giardinieri, comici, comunicatori, pubblicitari, eccetera eccetera eccetera. In tanti altri casi, il blog è lo spazio pubblico di aspiranti poeti, giovani artisti, gruppi di amici, o di famiglie, o di coppie che scelgono di rendere partecipe il mondo dei loro affetti. Tutto legittimo.

...o no?

Oggi Vittorio Zambardino ci segnala l'appello per evitare che ai blog vada applicato l'obbligo di rettifica previsto dalla legge sulla stampa del 1948 (!!!?), che prevede che chiunque pubblichi notizie inesatte è tenuto a pubblicarne entro 48 ore anche la rettifica, ad evitare sanzioni pesanti.
Il disegno di legge sulle intercettazioni - una legge a mio avviso di difficile applicazione e potenzialmente limitativa (ancora!) della libertà di informazione - è il ddl 1415A ed è stato approvato alla Camera la scorsa settimana. Qui si può firmare per la presentazione al Senato di un emendamento che, almeno, preveda una distinzione tra i blog personali e quelli professionali. In questo momento (sono le 11.30 di martedì 16 giugno) le firme raccolte sono solo 95; torniamo a vedere questa sera?

Scrittura collettiva

Diciamo, prima di tutto, che la scrittura collettiva esiste; e che scrivere con altri può essere un esperimento affascinante quanto rischioso. Come un giro di tango, affrontare insieme la pagina bianca può rivelare di noi anche più di anni di frequentazione e perfino di amicizia.

Mi aggiro guardinga e curiosa intorno agli esperimenti di SIC - Scrittura Industriale Collettiva.
In me - che ho sempre trovato troppo numeroso, e chiassoso soprattutto, un gruppo con più di due persone - un progetto come il Grande Romanzo Aperto suscita un'istintiva diffidenza. E pure...

giovedì 11 giugno 2009

Nostalgia

Nostos Algos

“Non si ha nostalgia, in definitiva, che di se stessi, di quella rete di significati e di rapporti che danno senso all’esistenza e alla quale ciascun individuo si identifica fino a non potersene più differenziare” (R. Beneduce, 1998)

domenica 17 maggio 2009

Tolleranza

Ancora una volta in trasferta senza Zingarelli, mi affido a TheFreeDictionary; e per questa riflessione scelgo oggi, 17 maggio, Giornata mondiale contro l'omofobia - una delle forme dell'Intolleranza - omofobica, religiosa, razziale, linguistica - a cui assistiamo quotidianamente.

Reagiamo, allora, con Tolleranza:
1. Rispetto delle opinioni diverse dalle proprie
2. Indulgenza. Comprensione. Atteggiamento comprensivo.
3. Capacità di sopportazione.
4. Scarto. Divergenza. Massima variazione ammessa rispetto a un valore.
5. Capacità dell'organismo di sopportare gli effetti di una sostanza.


Siamo "tolleranti":
5. La nostra società-organismo è in grado di sopportare gli effetti di una sostanza. Sostanza estranea. Sostanza (almeno potenzialmente) nociva. Sostanza diversa da noi. Ma fino a che punto la potrà sopportare? Quando avremo ragione di esplodere, quando il nostro organismo si sentirà in diritto di non sopportare più? E allora, cosa accadrà?
4. Siamo tolleranti nei confronti della divergenza da una norma che ci siamo dati e che ci aspettiamo sia condivisa. Chi non la condivide devia dalla normalità, è diverso. Siamo disponibili ad ammettere una variazione, a tollerarla; ma fino a un certo punto, fino a che lo scarto non supera la massima variazione ammessa rispetto a un valore, il nostro. E poi?
3. Siamo capaci di sopportare. Anche se chi è sopportato forse non lo merita. Anche se chi ci obbliga a sopportarlo potrebbe, forse dovrebbe fare uno sforzo per venirci incontro. Certo, la nostra capacità di sopportazione ha un limite...
2. Siamo indulgenti. Siamo comprensivi. Perdoniamo, insomma. Anche se.... eccetera, eccetera.
1. Ma allora, visti 5, 4, 3 e 2, rispettiamo davvero le opinioni diverse dalle nostre? La tolleranza è vera apertura? E' vera comprensione? E' un modo per mettere in discussione le proprie certezze?

No, non lo è. Tolleranza è credere di essere nel giusto. Tolleranza è (mal)sopportazione. Tolleranza è una parola pericolosa.

mercoledì 6 maggio 2009

Candidàto

Voce dotta, lat. candidatum 'vestito di bianco', da candidus 'bianco', detto così perché, nell'antica Roma, chi poneva la propria candidatura a una carica pubblica indossava una toga bianchissima.
1. Persona che ha posto, o di cui è stata posta, la candidatura a una carica o a un ufficio: i candidati alle elezioni politiche; ci sono tre candidati alla carica di amministratore delegato; le candidate a miss Italia; i due candidati a sindaco; i primi candidati a ricevere un organo trapiantato; il candidato per la circoscrizione.
2. Chi si presenta a un concorso o a sostenere un esame: i candidati all'esame di maturità; le candidate a un concorso di bellezza.
Per esteso: chi ha buone possibilità di successo: la squadra della capitale è la principale candidata al titolo di campione d'Italia.

Sembra che, da qualche anno almeno, i diversi significati della parola italiana si siano un po' confusi. Qualcuno che veste di bianco, anzi di bianchissimo; qualcosa che ha a che fare con i trapianti e con le belle ragazze; il calcio... C'è confusione, molta.

E pure, io il mio candidato ideale ce l'ho bene in mente; purtroppo per ora è solo lì, in mente.

E' giovane, o almeno giovane come si intendono i giovani in Italia; sotto i 50 anni andrebbe già bene, meglio se ne ha 40. Un 30-35enne sarebbe utopia, e non è di sogni che voglio parlare oggi.
Giovane, dunque. Uomo o donna, non ho preferenze.
Capisce la tecnologia, non in senso ingegneristico, ma semplicemente perché la usa: ha un palmare, un account su facebook, interviene sui blog, spedisce e riceve qualche decina di email/sms/mms al giorno. Tutto questo lo fa non in quanto candidato, non per dimostrare qualcosa; ma perché ne sente la necessità, perché palmare, social network, blog e ogni tipo di messaggio sono per lui mezzi-per-fare-le-cose.
Parla correntemente l'inglese, e se possibile almeno un'altra lingua. Che debba diventare premier, deputato europeo, sindaco o consigliere di circoscrizione, non voglio essere rappresentata da qualcuno che mi metta, anche indirettamente, in situazioni imbarazzanti, che abbia bisogno di un interprete o che faccia l'italiano simpatico che se la cava in ogni situazione.
Il mio candidato ideale ha poi il senso delle istituzioni, sa quando parla a titolo personale e quando invece rappresenta chi l'ha votato, distingue tra la persona che ha di fronte e ciò che questa persona rappresenta, e rispetta entrambe.

Detto questo, che è l'ABC del buon cittadino, servono le idee.
E in questo, la cosa per me fondamentale, e quasi impossibile in Italia, è che sia profondamente, intimamente, dichiaratamente e realmente laico.
Infine, il mio candidato ideale è attento alla tutela dell'ambiente, del paesaggio naturale e culturale, alla sostenibilità di produzione e consumo, all'importanza dell'educazione, della formazione e della ricerca.
Possibilmente disposto a nominare un poeta di corte.

Lo so, sono esigente. Qualcuno si candida?


PS: Della sua vita privata, mi importa poco o niente. Se non a titolo personale, si intende!

martedì 14 aprile 2009

Silenzio

Il glossario di bordo tace da un po' ma, anche se in trasferta non può contare sul fido Zingarelli 2005, anche a occhio - anzi, a orecchio - sa che il silenzio è assenza di rumore; a parte forse in un caso, quello dell'uso militare della parola, in cui silenzio significa il suono di una tromba.

In questi giorni, si è molto sentito parlare di silenzio: quello che segue il crollo, quello che precede il coro con cui chiamare chi forse è ancora sotto le macerie, quello che è dovuto alle vittime, quello di chi non ha più niente da dire. A tanto parlar di silenzio aggiungo il mio ammutolimento davanti alla pubblicazione del database delle vittime del terremoto d'Abruzzo: ordinabili per cognome, a verificare quanti di una stessa famiglia se ne siano andati; per data di nascita, a indagare chi fosse il più giovane e chi il più vecchio, se sia più insensato andarsene di pochi giorni o di cento anni; per luogo d'origine, così da permetterci di immaginare vite che non si sono mai spostate da un paese minuscolo e altre che erano partite per cercare di costruire qualcosa di diverso; per sesso, a contare se il terremoto abbia mietuto più tra gli uomini o tra le donne. E poi il campo "ricerca", per far provare il brivido del gioco d'azzardo a chi vorrebbe rintracciare amici e conoscenti, e spera solo che l'esito sia "nessun risultato".

Trovo che tutto questo sia osceno, forse più delle miriadi di fotografie che ci mostrano dolori privati e momenti che dovrebbero essere intimi. O forse altrettanto, se non perché alle foto ormai siamo abituati. E intanto, i tg si vantano dell'audience.

Troppo chiasso; meglio tacere.

mercoledì 1 aprile 2009

Facebook

Il buon vecchio Zingarelli 2005 qui non arriva, e come potrebbe? Passa direttamente da fàce a facèlla; RIP.

Alllora, la migliore definizione? E' un collage, metà dell'ex ministro Gentiloni e metà del mio amico Stefano:

"Arma di distrazione di massa, che unisce l'inutile al disdicevole".

E' ora!

Ora: Ventiquattresima parte del giorno medio.
Ora locale: riferita al meridiano del luogo in cui ci si trova
Ora civile: tempo medio del meridiano centrale del fuso orario dove si trova l'osservatore
Ora solare: calcolata in base al passaggio del Sole sul meridiano centrale del fuso orario
Ora legale: ora media determinata dal governo per ogni nazione
Ora canonica: ciascuna delle ore della giornata destinate dai canoni agli atti liturgici. (est.) il momento opportuno.

A proposito dell'articolo del manifesto del 28 marzo sull'ora di religione... magari a qualcuno può sembrare che si esageri, che i casi citati siano eccezionali. E invece no. Altrimenti non sarebbero successe, anche a noi, tutte le stesse cose.
  1. "Così capita che i docenti rassicurino i dubbiosi dicendo: «Faremo solo canti di pace, non vi preoccupate»." A noi hanno detto che avrebbero insegnato solo i valori universali. In che senso, universali? Creazione, cacciata dall'Eden, la-chiesa-casa-di-Gesù...

  2. "La maestra ha spiegato che c'era un solo bambino musulmano che non si avvaleva. [...] la maestra ha detto che era meglio che la bambina facesse religione per non restare isolata dai compagni. " Così, anche noi. Uguale. Ugualissimo. Con la differenza che abbiamo comunque barrato la casella NO.

  3. "...mio figlio ha fatto religione e anche gli altri che, come lui, non avrebbero dovuto farla. E' successo che nessuna insegnante, compresa quella di religione, si è accorta del fatto che in classe durante l'ora di religione c'erano anche i bambini che avrebbero dovuto essere esentati. Ho scoperto tutto solo alla festa di fine anno, quando l'insegnante mi ha messo in mano il quaderno di religione di mio figlio...". Noi ce ne siamo resi conto la volta che la bimba è arrivata a casa cantando "Io ho un amico che mi ama, il suo nome è gesù".

  4. "Farebbe scandalo e si creerebbe un caso se una scuola organizzasse in modo strutturato l'ora alternativa e desse dei progetti concreti ai genitori. Eppure basterebbe che dicesse: «Per chi non si avvale della Irc, ci sarà un corso di teatro con spettacolo a fine anno, oppure una storia del cinema per bambini o un corso di rime per testi rap». Macché. Cosa si fa? Non si sa! Per una sorta di tacito accordo, l'ora alternativa è un'ora di ciondolamento se non proprio di discriminazione. L'importante è che non sia attrattiva, questo è imperativo per le gerarchie ecclesiastiche. Non deve suscitare interesse nei bimbi che fanno l'ora di religione cattolica. Se fosse un'ora di laboratorio intelligente al momento di dividere la classe qualcuno potrebbe dire: «Pure io voglio fare l'ora alternativa». Questo non deve succedere. Deve valere il contrario. I bimbi che non si avvalgono devono avere qualcosa di meno." Di fronte alla nostra proposta di fare del volontariato, offrendo delle attività strutturate (presentare le figure della mitologia classica, raccontare le avventure di Orlando...) ai bambini che 'non si avvalevano', ci è stato risposto che proporre un'iniziativa interessante avrebbe potuto indurre altri a scegliere di non partecipare all'ora di IRC (Insegnamento della Religione Cattolica). Pertanto... no.

Insomma: è tutto banalmente vero. E allora, forse, è ora, di cambiare.

sabato 28 marzo 2009

Differenziamoci

Così recita il volantino in cartoncino riciclato che campeggia da un paio di giorni sul tavolo di casa. Differenziamoci? ...ma come??! E l'uguaglianza? E l'integrazione? Non sarà mica un rigurgito di campanilismo? Che sta succedendo? Consulto il fido Zingarelli:

differenziàre: [da differenza] Rendere differente. Rendere vario. Calcolare il differenziale. + Far risaltare.

Nessuno di questi è il significato che cerco. Insisto.

differenziàrsi: Essere o diventare differente. Distinguersi.

Ancora no. Allora forse...

differenziàto: part. pass. di differenziare; anche agg.. Che ha assunto caratteristiche proprie.

Non ci siamo...

Che si diversifica in base a delle distinzioni: insegnamento d.; raccolta differenziata dei rifiuti.

Eureka! Ci siamo: la raccolta differenziata dei rifiuti. "Dal rifiuto una risorsa. Differenziamoci". Detto, fatto: una telefonata, ed ecco che ci consegnano a domicilio i sacchetti grigi, quelli gialli, e poi il bidone rosso e quelli, più piccoli, marrone, bianco e blu. Trovato un posto per tutti, eliminati gli ultimi sacchetti indifferenziati, ci mettiamo di buona lena a smistare.
Tutto va bene fino a quando si tratta di carta, vetro, lattine, "frazione organica". Ma poi: la confezione dei bastoncini di pesce andrà tra la carta, oppure è carta oleata e va nella "frazione residua secca"? Il contenitore del latte sarà plastica del tipo riciclabile? E la pellicola che racchiude i biscotti? Il sacchetto della pasta? Le lattine smaltate del tonno al naturale?

Da bravi cittadini attivi, cerchiamo di informarci; e scopriamo che la confusione non è solo nostra. I produttori non hanno alcun obbligo di di segnalare se il materiale sia riciclabile o meno, e come; e quelli che aggiungono un logo alla confezione non possono essere certi di venire compresi, visto che -ad esempio- i simboli rotondi o triangolari con frecce che si rincorrono possono significare sia che il materiale è riciclabile, sia che è riciclato. E a noi rimane il problema di riuscire ad essere dei bravi differenziatori, riducendo al minimo le "varie ed eventuali".
Qualche indicazione si può trovare qui (e si noti che l'url finisce con la parola "giungla"), qui (ringraziamo per le precisazioni, ma più che l'esatta composizione di ogni tipo di materiale, non sarebbe più utile sapere cosa farne?) e qui; e naturalmente, anche qui.

E pure, la confusione rimane. Perciò, non tanto per differenziarmi ma per riuscire a differenziare, sottoscrivo una petizione che ha ancora troppo pochi firmatari.


Diffondi

mercoledì 18 marzo 2009

Scollinare al Centro

Ieri ho scollinàto:

Scollinàre

  1. (raro) Valicare colline
  2. Nel linguaggio giornalistico, superare un valico, detto di corridori ciclisti
  3. + Passeggiare per le colline.

Niente ciclismo, ho tagliato in due il Paese dall'Adriatico al Tirreno sulla mia potente Space Star 1.3: Urbino-Volterra, da collina a collina. Ho visto paesaggi che avevo dimenticato e, per una volta, "Bella Italia" è detto senza ironia e senza sconforto. Il colore della terra che digrada dal rosso al grigio e poi di nuovo al rosso; il profilo dei cipressi neri, su tanti diversi orizzonti; le curve dolci della Toscana, le linee più aspre di Marche ed Umbria.
Attraversando paesi dai nomi di fiaba (Borgo Pace, San Giustino, Radicondoli, Monteriggioni...) riflettevo tra me su quanto ognuna di queste incantevoli periferie sia
Cèntro:

  1. Punto, area, zona considerata, in modo più o meno convenzionale e approssimativo, come il punto mediano o più interno di qlco
  2. Polo che attrae o dal quale si irradiano attività, iniziative e sim.
  3. Nucleo urbanistico autonomo

E' qui che vivo ora, al Cèntro: 1, 2 e 3. Devo ancora abituarmici; vado a scollinàre (3) per chiarirmi le idee.

lunedì 9 marzo 2009

Provincia

"Il complesso dei paesi e dei piccoli centri, spesso considerati culturalmente e socialmente arretrati rispetto al capoluogo e alle grandi città: andare, ritirarsi in p.; la noia della vita di p.; mentalità, abitudini di p."

La recente esperienza di trasferimento in p. mi aiuta a aggiungere qualche dettaglio.
P. è infatti anche:
- luogo dove gli uffici pubblici sono ancora aperti con l'antico orario lu>sa ore 8>14
- luogo dove la protesta anti-Gelmini è stata tiepida, visto che il tempo pieno nelle scuole non c'è mai stato
- luogo dove, a 4 km dal centro storico di un capoluogo di p., non arriva l'adsl, e l'umts va a singhiozzo
e infine
- luogo dove il treno una volta c'era, ma è stato soppresso (da oltre 20 anni).

lunedì 2 marzo 2009

Storia


Oggi riferisco la storia di un altro, e di molti altri; direttamente da Internazionale di questa settimana.

Storia
Se uno dovesse riassumere in poche righe gli ultimi quindici anni di storia politica italiana potrebbe dire questo: il più caro amico di uno dei leader che simboleggiò la corruzione della classe politica del paese diventò l'uomo più ricco, l'imprenditore più famoso, il premier più amato, il leader del partito più votato; il segretario dell'ex partito neofascista diventò presidente della camera, terza carica dello stato; uno dei dirigenti dello stesso partito fu eletto sindaco della capitale; l'opposizione fu sciolta in modo democratico e le venne affidato il compito di autodistruggersi; gli ultimi dirigenti di quello che fu il più grande partito comunista dell'Europa occidentale lasciarono spontaneamente la guida a un uomo della Democrazia cristiana, il loro avversario storico; il resto della sinistra si divise così tante volte che alla fine raggiunse proporzioni omeopatiche; a raccoglierne l'eredità fu soprattutto un magistrato; intanto in tutto il paese si diffuse il fenomeno delle ronde. Ma è quello che venne dopo che fa paura. -
Giovanni De Mauro

domenica 1 marzo 2009

Abnegazione (traslochi e residenze)

La parola proposta oggi dal dizionario Zanichelli è abnegazione; ma non mi ci riconosco, e preferisco divagare sul tema del traslòco, "Complesso di operazioni relative al trasporto di mobili, masserizie, e sim. e alla loro sistemazione in una nuova casa o in un'altra sede: è stato un t. faticoso".

Il mio Zingarelli 2005 è appena uscito da uno scatolone, uno dei 100 contenenti libri che abbiamo traslocato. Un'altra cinquantina di scatole di masserizie, e il gioco è fatto: si arriva nella nuova casa, o sede, e si incomincia ad aprire le scatole. In genere, prima di cominciare ci si è proposti di approfittare dell'occasione per sfoltire, buttare, fare pulizia; spesso non ce n'è stato il tempo, oppure al momento buono non ce la siamo sentita, e abbiamo rimandato la decisione di staccarci da un mazzolino di fiori secchi, da quel vassoio mai usato regalo di un parente lontano, dal maglione ormai logoro a cui siamo affezionati. Apriamo le scatole, e tutti i nodi vengono al pettine.

Dopo alcuni giorni di polvere, tagli sulle mani e autoreferenziale attenzione ai nostri oggetti e ai nostri affetti, sorge un grande desiderio di uscire, di tornare nel mondo, magari di scoprire cosa ci sia fuori dalla nuova casa e di crearci una nuova appartenenza. E così, ligi alla legge e alla burocrazia, andiamo all'anagrafe a chiedere la residènza, "Luogo dove si risiede: cambiare spesso r.; fissare una r. stabile / (bur.) Il luogo dove una persona vive abitualmente, indicato nei registri dell'anagrafe comunale: comune di r.; Enrico ha trasferito la r. da Torino a Bologna. CFR. Domicilio, dimora".
Diligentemente, confrontiamo con domìcilio, "Luogo in cui una persona ha stabilito la sede principale dei propri affari e interessi / Residenza anagrafica / Eleggere d., stabilire con atto scritto un domicilio speciale / D. volontario, d. elettivo, quello scelto liberamente dal soggetto [...]".

O dunque?

Ho chiesto di avere la residènza nell'appartamento dove si trovano i miei mobili, le mie masserizie, dove dormo la notte con tutta la mia famiglia, e dove mi auguro di rimanere per un tempo congruo. Questo appartamento si trova di fronte ad un altro, di nostra proprietà, dove mio marito già risiede, visto che in questa città ha stabilito la sede principale dei propri affari e interessi, da ormai 24 anni. Tutti i suoi affari e interessi, e ora anche la famiglia: ma visto che siamo in quattro, i suoi 40 metri quadri da scapolo non bastano, e ci allarghiamo all'appartamento di fronte. Qualcuno ci vede del male? Del dolo? Della malversazione?

Bene: avremo un accertamento fiscale, perché non potendo presentare all'anagrafe una sentenza di separazione legale (....????) non è ammesso che due coniugi non risiedano allo stesso indirizzo. Separazione? Ma se, dopo anni, stiamo finalmente mettendo su casa insieme! Ma allora, prima cos'eravamo? Conservando residenze diverse abbiamo fatto due figli, e nessuno ci ha mai degnato di una qualsiasi detrazione, chessò, sulle tasse di iscrizione al nido, riduzione che spettava a figli di genitori conviventi ma non co-residenti, e non sposati. Contraddizione inattesa in uno stato cattolico, e pure...
Niente da fare: fino ad ora siamo subdolamente sfuggiti ad ogni legge, vivendo e lavorando prima a sei, poi a sole due ore di distanza, viaggiando a nostre spese senza bonus rimborsi o incentivi, pagando treno, benzina, autostrada, due case, doppie bollette e conti telefonici salatissimi pur di tenere in piedi una famiglia che si potesse dir tale. Ma finalmente, giustizia sarà fatta e avremo quel che ci spetta; probabilmente, non sarà un rimborso spese, né un riconoscimento pubblico per la pazienza, la tenacia e l'abnegazione.

sabato 31 gennaio 2009

Espiazione

Atonement, film diretto da Joe Wright nel 2007, rivisita piuttosto fedelmente il romanzo di Ian McEwan (2001) da cui è tratto: uguale la suddivisione in quattro movimenti, identiche le ambientazioni, gli stessi personaggi. Ma film e romanzo raccontano davvero la stessa storia?

Entrambi ripercorrono le vicende della scrittrice Briony Tallis a partire da giorno in cui, appena adolescente, si rende conto della propria vocazione, fino al suo settantasettesimo compleanno.
Il primo movimento del film segue quasi pedissequamente il romanzo, se non perché alcuni personaggi rimangono più abbozzati. L'unica differenza rimarchevole è l'uso, da parte della giovane Tallis, di una rumorosa macchina da scrivere, che rende la creazione un atto meno segreto e intimo di quanto fosse nel romanzo: una trovata efficace dal punto di vista della sceneggiatura, ma -come si vedrà- anche un'anticipazione importante.
Nella seconda parte del film compare qualche variazione, soprattutto di ritmo, a prima vista ancora attribuibile ad esigenze di brevità dovute al mezzo cinematografico: il percorso di Robbie Turner verso il mare appare più rapido, e sono tagliate proprio le scene più drammatiche e spettacolari presenti nel testo letterario, primo tra tutti il bombardamento della colonna di militari e civili in fuga, da parte dell'aviazione tedesca. Inoltre, un'immagine fondamentale del romanzo -il cadavere di un bimbo dilaniato da una bomba, incubo che accompagnerà Robbie fino alla fine- è sostituita e come amplificata da quella di un'intera scolaresca sterminata; ma anche qui la scelta è di mostrare un'immagine pulita, dalla compostezza che la rende niente affatto realistica ma quasi astratta.
La terza parte, in cui Briony Tallis diciottenne studia per divenire infermiera, è ormai lontana dal seguire passo a passo il romanzo. Nonostante le vicende si svolgano quasi per intero in ospedale, e in buona parte alle prese con feriti di guerra, la presenza di sangue è ridotta all'indispensabile, e anche momenti drammatici come la morte del giovane panettiere francese sono resi senza insistenza sui dettagli, ma quasi con intensa liricità. Rimane presente la macchina da scrivere, rumorosa e del tutto improbabile in un dormitorio di ragazze tenute ad osservare in modo ferreo le regole più fantasiose, al solo fine di essere abituate all'obbedienza: così, se nel romanzo la penna è sostituita da un mozzicone di matita, nel film il ticchettio echeggia nella notte, e tiene il ritmo dell'esistenza della giovane scrittrice, che pure si trova là per espiare, appunto, la sua stessa esistenza.
A questo punto del film è emerso chiaramente anche un altro intervento di regia, ed è l'attenzione riservata all'acqua e ai suoi significati simbolici. La polarità tra il bagno di Cecilia nella fntana-fonte battesimale, di ristoro nella giornata di gran caldo, e la sete insopportabile di Robbie, separato da lei da cinque anni di carcere e di guerra, è sottolineata e rafforzata da numerosi dettagli del romanzo ai quali il regista lascia spazio, e alle diverse invenzioni che si concede. Il laghetto e la piscina di Villa Tallis sono mostrate, fin dall'inizio, sotto ogni angolazione, così da poter essere rimpianti per tutto il resto della storia, e Wright insiste sull'episodio parallelo al bagno della sorella, narrato in flashback, di Briony bambina che si tuffa per essere salvata. In Francia, il cammino di Robbie prende avvio lungo un canale, la cui quiete ordinaria dovrà a sua volta essere rimpianta nelle scene a seguire. Briony si lava le mani all'ospedale: nel film, non più per richiesta pressante della caposala, ma per una sua necessità di pulizia e di purificazione. E per acqua viene anche la morte dei due amanti: Robbie per setticemia, prosciugato dalla sete; Cecilia -e questa è invenzione del regista- travolta dall'acqua di una tubatura esplosa, a causa di una bomba. Robbie dunque ucciso dalle privazioni, Cecilia annegata nella sua stessa passione.

E si viene così all'epilogo, breve in entrambi i casi, e risolutivo. Briony Tallis, divenuta scrittrice di successo, compie 77 anni e ha ricevuto da poco la notizia di essere affetta da una malattia degenerativa che la priverà della capacità di parlare, poi di capire, quindi di ricordare. Nelle due versioni compare l'incontro tardivo di Briony con Cecilia e Robbie, sopravvissuti alla guerra e finalmente riuniti; e in entrambe il romanzo non è ancora stato pubblicato. Ma a questo punto, romanzo e film si allontanano irreparabilmente.
Il romanzo di McEwan è anche una riflessione sulla scrittura, e il film deve arrestarsi davanti al gioco di rispecchiamento. E se nel libro la pubblicazione-redenzione non è avvenuta per timore di un'innaffrontabile causa da parte del troppo ricco e troppo potente Paul Marshall o della sua giovanile e aggressiva moglie Lola, nel film tutto è dovuto a un dubbio personale della scrittrice.
Nel film, dalla scena finale scompaiono la villa divenuta resort, la famiglia numerosa, i tanti presenti e i troppi assenti; la telecamera si svela nell'allestimento di un'intervista televisiva, con tanto di interruzione su richiesta della scrittrice, che chiede una pausa per riflettere, per ricordare finché può.
Il romanzo si conclude con una nota di mestizia: "Mi piace pensare che non sia debolezza né desiderio di fuga, ma un ultimo gesto di cortesia, una presa di posizione contro la dimenticanza e l'angoscia, permettere ai miei amanti di sopravvivere e vederli uniti alla fine. Ho regalato loro la felicità, ma non sono stata tanto opportunista da consentire che mi perdonassero, non proprio, non ancora. E se avessi il potere di evocare la loro presenza alla mia festa di compleanno... Robbie e Cecilia, ancora vivi, ancora innamorati, seduti accanto in biblioteca, a sorridere delle Disavventure di Arabella? Non è escluso. Ora basta però, devo dormire." La scrittrice indulge nella propria onnipotenza, è giunta alla fine della vita ma lascia ancora una porta aperta alla creazione letteraria, vanificando così la propria espiazione.

E il film? Si ferma poco prima, al regalo della felicità. Uguale l'onnipotenza, mentre il dubbio, il "Non è escluso" è lasciato agli occhi di Vanessa Redgrave; e per descrivere questo, le parole non sono sufficienti.

sabato 10 gennaio 2009

Digital Divide - baby version

Giorni fa è venuto a trovarci un amichetto di mia figlia (5 anni come lei) che, pochi mesi fa, si è trasferito in Senegal con il papà e il fratellino di 2 anni e oggi giorni riparte per Dakar. La mamma li raggiungerà tra qualche settimana.

Ci hanno raccontato dell'asilo bilingue, francese e inglese, e dei compagni di classe per metà senegalesi e per metà immigrati canadesi ed europei; dei mobili su misura per la casa, ordinati e acquistati per strada; e delle loro serate in famiglia. Ogni sera alle otto, papà e bimbi si siedono a tavola a Dakar; mamma, alle nove in Italia, fa altrettanto. Accendono il pc, lanciano skype e cenano. A Dakar suona il telefono: "Guardali tu, che vado a rispondere", e la mamma bada che la forchetta non cada, che nessuno si alzi prima di aver finito. A volte è necessario sentire la voce della mamma anche in altri momenti; allora papà chiama, ed ecco che lo schermo si illumina.

Tra poche settimane anche noi traslochiamo: non in Africa, ma più semplicemente a 150 chilometri da Bologna. Saremo tutti insieme, per fortuna; perché se dovessimo contare sulla tecnologia, staremmo freschi! Quello dove andremo fortunatamente non è uno dei troppo numerosi comuni italiani non raggiunti dal servizio ADSL. (Non è facile trovare dati certi e aggiornati). Meno fortunatamente, "Il segnale che arriva alla centrale non giunge però in tutti i borghi, frazioni, etc. del comune; arriva a una certa distanza dalla centrale che non coincide né col confine del comune né col raggio d'azione di una centrale vicina. Per cui quando un comune è coperto non vuol dire che sono coperti tutti gli abitanti" (fonte: Wikipedia).

Lasciamo la città per la provincia, alla ricerca di un'esistenza più tranquilla, di ritmi meno frenetici, di una maggiore disponibilità di tempo per noi e per i bambini. Non intende essere una scelta estrema: dalle finestre di casa si vedranno colline e molto cielo, ma saremo in ogni caso a solo 4 chilometri dal centro storico di un capoluogo di provincia! E pure, la zona non è raggiunta dai servizi ADSL né dalla copertura UMTS, né è inclusa nei progetti anti-digital divide. Dovremo puntare al satellite?

Mia figlia ha salutato il suo amico dicendo: "Ci vediamo sul computer", lui ha risposto: "Si, su skype".
Aggiungo io: "Speriamo..."

giovedì 8 gennaio 2009

Nel bel mezzo di un romanzo

Nell'ultimo numero di Internazionale (#776), Zadie Smith racconta il suo modo di scrivere. Scrivere romanzi, perché questo è il suo mestiere. Si descrive come una "micromanager", dice di cominciare dalla prima riga e di proseguire, avanti e ancora avanti, fino all'ultima, senza sapere prima dove la porterà la storia. Annoto qui che, nel mio piccolo, appartengo piuttosto, senza averlo scelto, alla categoria "macropianificatori", e ho cassetti pieni di appunti per trame, strutture, profili di personaggi. Non potrei scrivere nemmeno una riga, senza avere ben chiaro in mente dove si andrà a finire, e un'idea abbastanza precisa di come ci si arriverà.


Dopo aver attraversato le fasi DOP (Disturbo Ossessivo della Prospettiva), Le parole degli altri parte prima, Le parole degli altri parte seconda, ecco che Zadie Smith si trova Nel Bel Mezzo del Romanzo:


Nel bel mezzo di un romanzo, una specie di pensiero magico s'impadronisce di me. Tanto per chiarire, il "bel mezzo" può anche non capitare proprio nel centro geografico del romanzo. Con questa espressione mi riferisco piuttosto alla pagina, qualunque sia, su cui ti trovi quando smetti di far parte del tuo ménage e della tua famiglia, quando non conosci più il tuo partner e i tuoi figli, quando non sai più cosa sia far la spesa e dar da mangiare al cane e leggere la posta. Insomma, quando non c'è più niente al mondo tranne il tuo romanzo, e anche mentre tua moglie t'informa che va a letto con tuo fratello, la sua faccia ti sembra un gigantesco punto e virgola, le sue braccia due parentesi, perché tu sei occupato a chiederti se sia meglio il verbo "frugare" o "rovistare".

Ecco. Io credo che conoscere questo stato d'animo sia una delle ragioni per cui vale la pena vivere.