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lunedì 22 agosto 2011

Giappone

More about Il paese delle nevi
Yasunari Kawabata, Il paese delle nevi

A inizio lettura ho creduto che fosse necessario qualche accenno alla cultura giapponese, per cominciare a collocare narrazione, personaggi, atmosfere. Illusa! Come se per avvicinarsi a qualcosa di così lontano, e così diverso, e soprattutto così complesso, potesse bastare qualche pennellata di colore qua e là...
No, niente da fare: per dire la mia sul significato dell'uso dei colori, per azzardarmi a interpretare gli stati d'animo inespressi e quelli che a volte prorompono, per tentare un'interpretazione quale che sia, ho strumenti inadatti, spuntati, rozzi. Mi muoverei come il famoso elefante (...) in cristalleria, farei uno scempio di quanto di delicato e sospeso c'è in questo romanzo - ed è molto.
Candidamente mi aspettavo che alla fine i nodi si sarebbero sciolti, che come in un giallo tascabile il Narratore ci avrebbe rivelato di che natura fosse il legame tra Komako, Yoko e Yukio, se davvero la giovane fosse pazza e perché, o se invece la pazza –per amore?- non fosse piuttosto Komako stessa, e poi che cosa sia realmente questa pretesa pazzia… Invece, niente. Yukio è morto, morta è la maestra di piano, e mai Komako è stata al cimitero a visitarli. E’ grave, questo? E’ ammissibile, nel Giappone del secolo scorso? Morirà Yoko, e qualcuno sembrerà soffrire…
Bianca la neve, bianco il colore del lutto, bianchi i freschi tessuti estivi. Rossi il fuoco, l’acero in autunno, l’orlo del sottokimono di Komako: qualcosa a che fare con il colore nuziale? Chi sa.
La fisicità di Komako poi è così diversa da quella che impariamo a immaginare osservando le immagini di geisha, si tratti di antiche incisioni o moderne fotografie. La si pensa donna immobile, raffinata, dall’estetica impeccabile; invece Komako fuma, beve molto, spesso si aggrappa a un braccio o cade malamente addosso a Shimamura, gli si presenta in camera di notte, ride e piange in maniera sguaiata. Di che si tratta? Umori volubili normali in una ragazza di vent’anni… o forse è altro? Forse è errata l’immagine di geisha costruita fino ad or, ed è più corretta questa? Giovane donna sola, con un traballante progetto di vita; donna a tratti seducente, invitante, ad altri in fuga, capace di atti sensuali come un rapido morso, e di scene isteriche e apparentemente insensate. Cosa va attribuito al suo personaggio, cos’altro semplicemente al ‘tipo’?
E il treno? Quanti treni nella letteratura giapponese.  Treni che partono verso il cielo, treni che deragliano, treni nel silenzio e treni nel chiasso della metropoli, treni che attraversano gallerie e fondali marini, treni antiquati e treni-proiettle… E questo? Il treno che porta Shimamura al Paese delle nevi, e poi inesorabilmente lo riporta al suo Altrove, che treno sarà? A quali altri treni vorrà alludere? Quali treni avrà generato a sua volta?
E il caldo, il freddo. E la presenza e l’assenza del sesso… e gli insetti, questo continuo ronzio di tarme, falene, bachi, un fastidio incessante, una continua agonia… perché?

Basta con le domande. La lettura di questo romanzo ne ha sollevate moltissime, ed è un suo grande merito. Kawabata Yasunari, affascinato dall’Occidente, ci regala un ritratto delicato e profondissimo del suo Paese. Senza aver affrontato la lettura agostana del suo Paese delle nevi, difficilmente saprei ora che esistono gli onsen (dove è preferibile non presentarsi se si è tatuati) e le relative onsen-geisha, con caratteristiche diverse dalle geiko tradizionali. Non saprei cos’è un kotatsu, né che esiste una carpa il cui nome significa rosso-bianco (carpa koi della varietà Kohaku). Non avrei idea di come si indossa un kimono, e che esista anche un sottokimono più facile da lavare, e che si chiami (ma non sempre) juban e che possa essere portato da donne e da uomini, e che nelle donne il suo colore possa indicare lo stato di maiko (se rosso) o di geiko (se bianco); e che il passaggio da uno stato all’altro abbia anch’esso un nome, mizuage… Non saprei nemmeno del rapporto tra Yasunari Kawabata e Mishima Yukio, né del suicidio di entrambi.
Ma da raccogliere frammenti di una cultura, a sbilanciarsi nell’interpretazione di un romanzo breve e complesso come il Paese delle nevi, ce ne passa… perciò mi fermo qui, tanto più che è finita ora anche la Storia di erbe fluttuanti (http://tinyurl.com/3d4mdmg) che scorreva muto in sottofondo, ad arricchire di immagini questo paese di fantasia che rimane tuttora ai miei occhi il Giappone.


Approfondimenti in:

http://www.anobii.com/forum_thread?topicId=3172847
http://www.anobii.com/forum_thread?topicId=3173328
http://www.anobii.com/forum_thread?topicId=3173714

mercoledì 29 giugno 2011

Stanco

More about Il viaggio dell'elefante
José Saramago, Il viaggio dell'elefante

Sarà l'età. Sarà il non avere più voglia. Sarà invece il timore di non avere più un'altra occasione.
Ma questo elefante non aggiunge gran che alla scrittura di Saramago. Si ripete anche qui il piacere, sempre presente, della scrittura guizzante e digressiva, ma l'effetto è un po' manierista. L'autore cita se stesso, certe divagazioni sembrano autoreferenziali.
L'elefante muto rimane sullo sfondo, figura enigmatica di cui non si sa praticamente nulla, se capisca, se pensi, se davvero ricordi. Non agisce, emette soltanto pochi isolati barriti; e ci lascia persi nella nebbia, o nel bianco della neve.
Romanzo di fine, di morte, di non ritorno.
Nota di merito per la bellissima carta riciclata dell'edizione in paperback; di grave demerito per la brossura che non tiene, il volume ti si squaderna tra le mani prima di giungere alla fine.

sabato 14 maggio 2011

Il vangelo secondo Gesù Cristo

More about Il vangelo secondo Gesù Cristo
Il Vangelo di Saramago si apre con un ‘manifesto di stile’: la magistrale e virtuosistica ecfrasi dell'incisione di Dürer e il modo insieme colloquiale ed ostico di approcciare la scrittura sembrano fatti apposta per selezionare i lettori fin dall’inizio. Inoltre, dopo appena un paio di pagine, Saramago ci mette in guardia: qui non troveremo dottrina ma molta, molta umanità. Quanto a forma e contenuto, se pure vogliamo immaginarli scindibili, il lettore è dunque avvertito e sa già quanto basta per immaginare a cosa stia andando incontro:  quattrocento pagine impegnative e dense di dubbi, che lo lasceranno più disorientato di quanto non fosse all’inizio.

Donna
Il romanzo è popolato da uomini spesso patetici e disorientati, persi tra lodi dovute e cavilli dottrinali. Al loro fianco, donne concrete, pragmatiche: sono loro a conoscere realmente cosa sia la vita, e questo non per via di studio, ma per quotidiana necessità. Derise perché inferiori, temute in quanto detentrici di oscuri poteri, quello della parola prima di tutti: "Se la legge non avesse messo a tacere per sempre le donne, saprebbero dirci, poiché hanno inventato quel primo peccato da cui tutti gli altri discendono, quanto ancora non conosciamo". Basterebbe chiedere, insomma, per scoprire che quel peccato non è tale ma è parte della vita, per capire finalmente come l'esistenza possa essere una pratica quotidiana semplice e forse perfino gioiosa.
Ma, anziché dialogare con chi hanno accanto, gli uomini inventano Dio. Lo fanno per proteggersi da quanto non comprendono, e per spiegarselo. Un Dio fragile, destinato a morire con le sue creature perché è nato da loro, creatura a sua volta del loro bisogno e delle loro paure.
Ma la donna rimane, ferma, stabile; e capace di amore – un amore, a sorpresa, che nasce dal corpo, e solo più tardi raggiunge l'anima. "Non sarai nessuno se non amerai te stesso, non giungerai a Dio se non arriverai prima al tuo corpo."
La donna, essere naturale. Donna capace di carezze e brividi, rassicurante, intatta e presente all'Amore nonostante si sia venduta a tanti - regalando loro, immaginiamo con istintiva simpatia per la Maddalena, momenti brevi di serenità e sollievo dal mondo. Donna che insegna un amore tutto terreno, l'unico che ci è dato, e l'uomo finalmente impara: "Ciò che tu insegni non è prigione, ma libertà."
Donna che capisce e conosce: “Come lo sai, tu, Le donne hanno altri modi di pensare, forse perché il nostro corpo è diverso, dev'essere per questo, sì, dev'essere per questo".

Scrittura e Ateismo
Nessun lettore di Saramago è innocente; men che meno lo siamo nel leggere il suo vangelo, di cui conosciamo già bene le vicende. L'autore, lo attendiamo al varco per scoprire come se la caverà, da quale inedito punto di vista ci saprà racconterà quel che già ci sembra di sapere.
Saramago gioca con il lettore parlandogli con voce di narratore onnisciente, nostro contemporaneo e ironico; e quando lascia la parola ai personaggi, non smette di prenderne le distanze, così che il lettore non si possa mai del tutto affidare alla storia, ma sia costretto a rimanere vigile e critico.
In un corto circuito di onnipotenza del narratore, sarà lui stesso e non i fatti, né tanto meno noi, a decidere quali saranno le vicende, e sarà lui a imporci di fingere di non sapere come andrà a finire, dovremo condividerne i dubbi e seguirne il percorso, e in conclusione l'unica verità vera di questo vangelo sarà quella narrata, quella scritta e ormai immutabile: “verrà un giorno in cui si sarà ormai persa ogni memoria dell'accaduto, e allora, visto che gli uomini vogliono per ogni cosa una spiegazione, falsa o vera, si inventeranno storie e leggende, all'inizio ancora con qualche relazione con i fatti, che poi sarà sempre più tenue, fino a quando si trasformerà tutto in pura fabula." La realtà inventata da Saramago sarà dunque ‘vera’, né più né meno di quanto sono state e sono "vere" le narrazioni dei vangeli canonici.
Non stupiscono le accuse di blasfemia alzatesi dalla Chiesa cattolica all'uscita del romanzo: Saramago demolisce ogni possibilità di gerarchia ecclesiastica in nome di una religiosità sincera e diretta tra l'uomo e il proprio bisogno di trascendenza. E altrettanto si spiega l'ammirazione per la potenza narrativa del cantastorie Saramago.
Lungo il romanzo, perfino la fede nella parola, quella minuscola, umana, slitta impercettibilmente nel relativismo: "l'istante è arrivato ed è passato, il tempo ci porta fin dove s'inventa una memoria, era così oppure no, è tutto come noi diciamo che è stato". Non si tratta più, qui, nemmeno di credere o meno nella verità storica della narrazione evangelica; si tratta di capire se i fatti esistano tout-court, o quanto meno se la loro esistenza abbia un peso, visto che esisterà solo ciò che saremo in grado di dire in parole. Fiducia nel verbo, o sfiducia nella realtà?

Bene, Male, Libero Arbitrio
Gesù sceglie di seguire Pastore, rimane con li per quattro anni; ne fa un nuovo padre, e verso di lui è insieme guardingo e fiducioso. Impara la sua legge, che è legge tutta umana fondata sulla ragione: che senso potrà mai avere sacrificare un agnello, tanti agnelli? Per tutto il romanzo, Pastore continua a sembrare migliore di Dio: "mi sono limitato a prendere ciò che Dio non ha voluto, la carne, con la sua gioia e la sua tristezza, la gioventù e la vecchiaia, la freschezza e il marciume, ma non è vero che la paura sia una mia arma, non ricordo di essere stato io a inventare il peccato e il suo castigo, e la paura che li accompagna sempre". Gesù fa una scelta difficile, lo segue e volta le spalle al tempio.
Di fronte all'incontro non mediato con il Dio capriccioso dell'Antico Testamento, tuttavia, non sa rimanere coerente: trasgredisce, sacrifica a Dio e se ne deve andare.
Gesù sarà, sarà, è già l’agnello; e a nulla varrà, in seguito, cambiare opinione.
Saramago sembra brevemente darci speranza: "il destino non è affatto quello che crediamo, noi pensiamo che tutto sa deciso fin da principio, mentre la verità e ben diversa [...] il destino è la cosa più difficile che esista al mondo". Potrebbe esserci dunque una via d’uscita, uno spazio per il libero arbitrio? Un modo per tentare di liberarsi dal patto con cui Gesù, per ambizione, si è incautamente venduto l'anima. Può essere forse l'amore umano e vero e rivoluzionario per la Maddalena, amante e sposa fuori dalla legge, basti a rompere il patto con Dio e rendere Gesù l'Uomo che pareva destinato a divenire.
Ma non è così perché il suo destino Gesù, in un momento scellerato, l’ha scelto e accettato. Il patto di potere non è revocabile e lo condanna a non essere mai Uomo ma solamente imago Dei, con la stessa insoddisfazione di Dio, con la sua stessa ambizione, con la stessa brama. Identico a quel Dio che, in un gioco speculare e contorto, per l'ateo Saramago Dio è a sua volta immagine, Persona (Pessoa) dell'uomo e di tutte le sue miserie, in un circolo di paura che si avvita su se stesso e ci precipita tutti in un viluppo di martirio e di automortificazione.