Insieme in volo legate alla vita"Storia di Francesca" Il video proiettato ieri sera al Collegio Raffaello di Urbino in occasione della presentazione del nostro libro.
Pubblicato da Insieme in volo legate alla vita su Martedì 28 agosto 2018
parole scritte o dette, parole in versi o in prosa, parole per convincere o per ricordare, per confidarsi, redimersi o mentire: questo spazio è dedicato alla lettura, alla scrittura, e alla vita.
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martedì 28 agosto 2018
Insieme (ovvero: un pezzo di me che se ne va da solo per il mondo)
Ubicazione:
61029 Urbino PU, Italia
martedì 31 gennaio 2012
(Giornata della) Memoria
Qualche sera fa sono stata a teatro; ci andavo spesso un tempo, ora non più. E' capitato per caso, perché conoscevo l'attore, perché ho assistito alle prove e poi mi sono fermata. Ma non mi ero preparata e non conoscevo il testo, che mi era solo vagamente familiare –forse solo per somiglianza con qualcos'altro di simile, forse un film, chi sa. Destinatario sconosciuto. Un bel titolo, il carteggio tra due amici e soci in affari, ebreo e tedesco; è il 1932, l'ebreo rimane a San Francisco, il tedesco rientra in Germania e prende a simpatizzare con il nazismo, ed è l'inizio di un crescendo di violenza e vendette che non risparmierà nemmeno i sentimenti più nobili. Dopo lo spettacolo sono rientrata a casa con la sensazione di qualcosa di incompiuto.
L'indomani, in casa, ho trovato una scatola ancora chiusa dall'ultimo trasloco. Mi era sfuggita: la apro, e mi trovo fra le mani un volumetto: Destinatario sconosciuto di Katehrine Kressmann Taylor, con una data di oltre dieci anni fa. Un periodo in cui leggevo pochissimo, perché mai l'avrò comprato… Mi riprometto di rileggerlo, e lo appoggio accanto al letto.
Passa un altro giorno, trovo il tempo per sfogliare le pagine che sembrano ingiallite ad arte. Ne esce una busta prestampata con un biglietto scritto a mano: qualcuno che mi ringrazia –ma tu guarda!- per avergli procurato un posto a teatro.
Se c'è un senso, ancora mi sfugge.
mercoledì 29 luglio 2009
Orange juice
1.
"Buongiorno, Emily. Hai dormito bene?"
Sulla tovaglia a quadri ci sono già pane tostato, burro, marmellata e tre tazze di caffè.
Prendo dal sacchetto dieci arance e le allineo sulla credenza, accanto allo spermiagrumi e ai
cinque bicchieri.
Ieri pomeriggio me ne stavo, spalle al muro, nel mio angolo dell'aula di pittura. Da lì posso
vedere chiunque entri o esca, il che spesso mi distrae, ma è sempre meglio di dare le spalle
a tutti, sentirsi osservata e non sapere da chi. Un po' di carminio, del bruno Van Dijk,
tentavo di rifare una pennellata à la Rubens; ed ecco il prof. Stiller, il mio tutor. Certi giorni
non c'è verso di lavorare; in ogni modo, meglio lui che un altro. Sembrava contento.
Arriva, mi parla dei corsi estivi alla scuola di grafica di Venezia, di una borsa di studio, dei
miei lavori dello scorso semestre... Non lo seguo, perché vuole che li presenti? Sono solo
compiti, magari ben fatti, ma niente di originale. E lui, tutto eccitato, "Non mi sono
spiegato! Ho già proposto i tuoi lavori, e oggi la Fondazione ha pubblicato i risultati delle
selezioni. Non sei contenta?". Contenta, di cosa? A quanto pare, hanno già deciso tutto: la
borsa copre vitto, alloggio e frequenza ai corsi, la scuola mi fa un prestito per pagare il
viaggio, da restituire più avanti, dopo il diploma... Ma perché nessuno chiede il mio
parere?
Prendo la prima arancia a sinistra, la taglio; ne spremo metà, quindi l'altra metà, poi
appoggio le bucce a destra, in fondo alla fila. Seconda arancia, un bicchiere è pronto; lo
appoggio sul vassoio e riprendo il coltello.
Stiller dà per scontato che sia una splendida notizia; e, certo, è un'opportunità unica.
Qualunque studente d'arte vorrebbe essere al mio posto... ma il mio stomaco si rifiuta di
collaborare. Da ieri sera ho la nausea. Venezia... San Marco! Cinque cupole su pianta a
croce greca, le mura ricoperte di marmi razziati durante le Crociate, le porte di bronzo, i
cavalli. Il mosaico con il corpo del santo, gli intrecci di pietra in stile moresco, il pastore
scolpito ad immagine di Ercole. Uno stratificarsi di arti, di stili e di culture fuse l'una
nell'altra in un'opera di bellezza miracolosa, una sfavillante enciclopedia del Cristianesimo.
Terza arancia, spremiagrumi, bicchiere, quarta arancia. A Venezia starò bene. Perché non
dovrei? Non sarò sola, magari verrà anche Stiller, non glie l'ho chiesto. Ero stordita. Ieri
sera, alla bottega di Mr Fiorelli, ho urtato una pila di cassette e l'insalata è finita a terra, e
anche il mio sacchetto di arance. Oggi è fine mese, devo ricordarmi di chiedergli il conto.
Quinta arancia; sesta. Passeggio con gli occhi socchiusi sulla riva, carpisco il segreto del
riverbero della luce sull'acqua. Anche la mamma, a cena, era tutta entusiasta. Prima
pensava che avessero selezionato i miei lavori per una mostra. Mamma, non è una mostra.
E' una borsa di studi.
"Ma stai per diplomarti... Studierai ancora, Emily? Forse alla tua età sarebbe ora di..."
No, mamma. Aspetta. E' una borsa di specializzazione, ma breve. A Venezia.
Silenzio. Mamma sgrana gli occhi:
"...Venezia!!!?! Ragazzi, venite! James... Venezia! Che bello Emily, che splendida notizia!
James vieni a sentire! Harry, Ernest, la cena! Ragazzi!!!"
Poi mi dà un bacio dei suoi, che si sente lo schiocco fino in camera, e se ne va ridendo. A
volte fa così; se ce l'avessi anch'io, il suo buon umore...
Altre due arance e ho finito. Io invece sono stanca, ho passato la notte a rigirarmi nel letto.
Destra: la tenda blu scuro che ondeggia nella penombra, qualche luce e rumori dalla strada.
Un semestre è lungo... non ho mai messo piede su un aereo... a Venezia ci sarà un
aeroporto? O dovrò prendere la nave? Sinistra: altra luce che filtra sotto la porta bianca, la
scrivania lo scaffale la sedia, bianchi. Tiziano, la luce dell'inizio, le pennellate lunghe e
nervose degli ultimi anni. Le quarantatré tele di Tintoretto alla Scuola di San Rocco. Le
ombre degli affreschi di Giorgione sui muri esterni dei palazzi. Ho letto da qualche parte
che non si è mai stati a Venezia se non ci si arriva dal mare; dunque, andrò in nave.
Ultimo bicchiere. Raccolgo le bucce e le getto tutte insieme nel bidone. Svito lo
spremiagrumi, lo lavo, bagno lo straccio sotto il rubinetto, lo passo sulla credenza. Sollevo
il vassoio, mi giro, lo appoggio sul tavolo.
"...hai dormito bene?"
Incrocio lo sguardo di mia madre, le sorrido.
"Si".
2.
Ci siamo, si parte.
Mamma, con il vestito scollato a fiori rosa e verdi, oggi è un po' nervosa anche lei, sorride e
parla a voce alta. Uscendo di casa se n'è accorta, che stavo zitta più del solito, e che non mi
sono voltata indietro a guardare. Starò via sei mesi, non è poi tanto. Però, che rabbia, in
queste settimane ho lavorato così male! Venti risposte sbagliate al test finale di Arts
History, io!!! E la copia da Rubens, nemmeno al primo anno mi sarebbe riuscita così
posticcia. Poi, volevo riprendere quei ritratti in seppia, si possono migliorare, ora ne sarei
capace, e invece ho perso tutto questo tempo a preparare i bagagli, a correre per negozi, a
preoccuparmi, e ora non ci lavorerò più almeno fino all'anno prossimo, ma chi me l'ha fatto
fare? Perché dovrei andarmene, ho ancora tanto da lavorare, qui, piuttosto sarebbe il
momento di trovare uno studio tutto per me, e cominciare a fare sul serio...
Arrivati all'aeroporto, James è stato gentile, ha controllato sul giornale le previsioni del
tempo, mi ha portato il bagaglio. Hanno chiamato il mio volo, imbarco immediato. Con la
mano in tasca, accarezzo un'arancia lucida e rotonda; la mangerò più tardi.
3.
Chi non ricorda la prima volta che ha visto l'isola che non c'è? Quando da piccolo,
premendo forte le mani sugli occhi, si è detto: "Se riesco a restare fermo immobile, senza
dire niente, se non sento nessun rumore e non ho paura, allora..." Allora, le chiazze di luce
iniziano a colorarsi e prendono forme mutevoli di nuvole, e i sogni diventano realtà.
L'aereo attraversa l'ultimo strato di nubi, macchie di azzurro e di verde emergono dalla
foschia, diventano più nitide, fino a quando nel mezzo della tavolozza lagunare compare il
mosaico di isole che compongono il pesce: Venezia.
Il bagaglio è pesante, vedo solo i miei piedi che ad ogni passo toccano quasi le minuscole
rotelline del trolley davanti a me. Appoggio lo zaino, prendo fiato, respiro una brezza
satura di sale e di polline. Dal motoscafo, la distesa d'acqua e isole pare un deserto, un
nulla, fatto apposta per perdersi; e quell'isola spettrale e selvaggia, più grande delle altre,
fitta di alberi soffocati dall'edera, senza alcun edificio... sembra la negazione dell'idea di
Venezia. Chissà se a Venezia ci sono degli alberi.
Ho sempre pensato a calli e campielli sospesi in un silenzio irreale, come se fossero
popolati solo da nobili settecenteschi e servette da commedia. Invece, ora che sono scesa a
terra -si dirà così?- e tento di orientarmi con la mappa, i miei occhi stentano ad abituarsi
alla nuova luce; sono nuovi il profilo degli edifici, i percorsi mai rettilinei che i miei piedi
imparano poco a poco a percorrere, nuovi gli sguardi delle persone che incrocio, che
guardano e si lasciano guardare. E del tutto inattesi, per me, sono la folla e il rumore, che
aumentano passo dopo passo. Un gruppo di giapponesi mi inghiotte, seguono una ragazza
bionda dai grandi occhi chiari, che parla con un improbabile accento stridulo da orientale.
Tento di svincolarmi dall'onda, e mi ritrovo in una marea di donne d'ogni foggia e d'ogni
taglia, che trascinano borse voluminose o pratici carretti. Questa volta non oppongo
resistenza, mi lascio trasportare e mi trovo al mercato della frutta di Rialto: una distesa di
banchi carichi di ogni genere di ortaggio e vegetale, e dietro ogni banco i venditori che
richiamano ad alta voce le clienti:
"Bella merce, via, andiamo donne!"
Parlano veloce, capisco appena.
Il selciato è umido e disseminato di foglie e di resti di frutta sbocconcellata; a tratti
qualcuno fa pulizia spruzzando il terreno con tubi di gomma verde, attaccati chi sa dove. Il
vociare è continuo. Sui banconi si alzano piramidi di mele, incorniciate da luccicanti
confezioni di frutta candita - albicocche, e poi mango, papaya e magnifici pezzi di zenzero
zuccherato. Fette di cocco sbucciate attendono sotto l'acqua di una fontanella. Pendono
dall'alto caschi interi di banane.
Altri banchi espongono soprattutto verdura, cuori di lattuga verde chiaro brillante, rucola
verde scuro, cipolle bianche grandi oppure rosse, più minute, patate rosse e gialle di
Sant'Erasmo, e poi zucchine allineate nelle cassette, montagne di fagiolini, e ancora
melanzane, sedani e carote. Spero di ricordare sempre questa tavolozza brillante, e le ceste
piene di pomodori maturi. Pomodori da insalata, tondeggianti, grandi, sodi, di colore rosato
e verde, a spicchi poco marcati. Pomodori nostrani. Pomodori cavallino, lunghi e irregolari.
Pomodori siciliani. Pomodori a grappolo, pomodori piccadilly. Pomodori cuore di bue,
molto grandi, a spicchi sottili. Pomodori cirio, ciliegino, datterino, tutti rosso brillante e
perfettamente rotondi, suddivisi per diametro, come perline passate al setaccio.
Le tende verdi stese tra i banchi di frutta non bastano a proteggermi dal sole di luglio, vedo
tutto girare, troppo veloce, troppo rumoroso. Vedo attraccare una gondola; non ha i velluti
né ori, è una lunga pennellata nera attraverso il Canal Grande. Scendono svelte altre
signore, portano borse, passeggini, carrelli e si muovono sicure sulle strette passerelle di
legno. Finalmente, vicino alla riva, vedo un banco ordinato e composto, piccolo,
sorvegliato da un uomo silenzioso, intento a ripulire dei carciofi. E finalmente, fuori
stagione, anche delle arance.
4.
I primi giorni a Venezia sono stati frenetici; e conoscere Andrea, il mio tutor italiano, mi ha
fatto venire nostalgia: com'era elegante Mr Stiller, longilineo pallido allampanato, capace
con brevi cenni di rendere partecipi anche noi studenti della magia impalpabile
dell'immateriale, coinvolgerci nel mistero dell'arte che nasce dalla sostanza pittorica.
Andrea: basso, tarchiato, completamente calvo, ride troppo. Sembra entusiasta; ma di cosa?
Nel primo quarto d'ora si è già preso confidenze che Stiller non si permetterebbe mai: ha
chiesto dettagli delle nostre vite private, verificato lo stato delle unghie di alcuni, ha perfino
espresso apprezzamenti su un paio delle ragazze presenti, tra gli schiamazzi e le risate
generali. Dovrò cavarmela da sola.
Sono ancora spaesata, ma somiglio sempre meno a una turista. Con il passare delle
settimane ho capito che a Venezia il pittoresco è sempre in agguato. Tutto sembra poetico.
Tutto rischia di diventare cartolina. I gabbiani si aggirano con affettata indifferenza,
afferrano voraci tutti gli avanzi, fanno pulizia. Pescatori giovani e vecchi si affaccendano a
scaricare casse di pesce, tra le urla minacciose di chi, nei barconi vicini, attende il proprio
turno. Turisti mattinieri vagabondano per le calli; ragazzine magre, sedute su uno scalino a
scrivere, indossano gonnelline da poco e gioielli di legno colorato; studenti di pittura come
me, disegnano. Tutti a cercare di cogliere il segreto, e portarne qualcosa con sé.
Sto imparando l'italiano. Mi aggiro per il mercato del pesce e ripeto tra me i nomi delle
merci, scritti a penna su umidi pezzi di carta. Rombo dorato. Verdesche fresche. Canocce
piene. Scampi grossi freschi da crudo. Cappesante vive con corallo. Branzini selvaggi
pescati. Fólpi, bòvoi, déntici. Un'enorme testa di pesce spada mi osserva con stupore, il
rostro proiettato verso l'alto. Percorro con lo sguardo le file di sarde e di spigole, osservo
gli sforzi vani di gamberi e aragoste per liberarsi dei legacci che ne immobilizzano le chele.
Ascolto le grida dei venditori che incessanti mi invitano a comprare; poi, al mercato della
frutta, sempre allo stesso bancone, acquisto un’arancia, una sola. La sbuccerò nel
pomeriggio, prima di mettermi al lavoro.
5.
Col tempo sono riuscita, come a Boston, a conquistarmi un posto tranquillo, in fondo alla
sala comune, spalle al muro. Gli altri studenti non ci sono, qualcuno è ancora a pranzo, altri
bevono un caffè prima di riprendere il lavoro. Osservo le tele dei miei compagni. Studio la
luce ormai grigia, autunnale, dietro le vetrate. Abbottono il camice. Controllo che i pennelli
siano allineati; uno si è spostato, lo sistemo. Lavoro molto, mi impegno; i professori mi
apprezzano, qualche gallerista ha alzato un sopracciglio davanti ai miei lavori, mi accorgo
anch’io dei miei progressi. Ma sono ancora semplici esercizi, presto i nodi verranno al
pettine.
Molti dei miei compagni sono a buon punto con l'opera di fine corso, ne parlano, si
confrontano; mentre io continuo a non avere alcuna idea su cosa presentare. Sono
preoccupata. Anche la notte scorsa ho dormito male. Vorrei cancellare i pensieri, intanto mi
scosto dalla fronte una ciocca di capelli. Pennello, colore, un passo indietro per osservare la
tela, traccio qualche segno; non sono convinta. Cerco la mia solita arancia, ormai
sbucciarne una prima del lavoro è diventata un'abitudine, mi aiuta a concentrarmi. Ma oggi
va tutto storto, l'ho dimenticata.
Esco stizzita e mi avvio al mercato, so già che a quest'ora non troverò niente. Ascolto sul
selciato il ritmo del mio passo che con i mesi è diventato svelto, regolare, veneziano.
Lascio correre anche i pensieri, fino a quando non penso più, lascio che le immagini si
svolgano da sé, assisto allo spettacolo della città non più smaltata dal riverbero estivo, ma
resa vaga da un principio di nebbia, dall'umidità sospesa che sfuma i contorni. E a un tratto,
nella luce sbiadita, ecco un'immagine che emerge e si definisce, netta, brillante. L’arancia.
La mia solita arancia. Ma certo!
Devo trovare subito due tele. Tre. Tre tele piccole. Corri, Emily! Il negozio di colori è
dietro l’angolo. Ho dimenticato di togliere il camice, ma non importa, torno subito. E’
chiuso!! Riapre alle cinque, troppo tardi, non posso aspettare. Devo trovare Andrea. Per
fortuna adesso ci capiamo un po’ meglio. Cerco nel laboratorio, nell'aula professori, negli
uffici; Andrea non è in mensa, non è nel cortile.
"Un quarto d'ora fa era alla Cantina... forse lo trovi ancora."
Mi dimentico di ringraziare e corro verso il bacaro. Lo vedo già dall'esterno, il profilo
ritagliato nel rettangolo luminoso della porta sul retro; è seduto a un tavolino di legno
scuro, su cui si affollano piattini vuoti, tovaglioli di carta bisunti, dozzinali bicchieri di
vetro e brocche di varie misure.
"Ho bisogno di sette tele quadrate."
Andrea ride ancora dell'ultima battuta di un collega; sta mangiando un crostino al baccalà e
beve vino. Rosso.
"Andrea... ho bisogno di sette tele. Adesso"
Mi guarda sorridendo, annuisce e volta di nuovo lo sguardo verso i colleghi. Ma allora non
capisce! Ho un moto di impazienza, lo prendo per una manica:
"Andrea! Ascoltami. Ho bisogno di sette tele quadrate, piccole. Tutte uguali. Ne ho
bisogno subito!!"
Finalmente sembra aver colto l'urgenza. Si è alzato, mi segue fino alla porta, usciamo. E’
curioso, mi osserva mentre avanziamo insieme a grandi falcate verso la scuola, lui col
pensiero ancora al pranzo lasciato a metà; ma ora non ho tempo di spiegare.
A scuola, il custode non c'è; sarà a pranzo anche lui. Andrea si affaccia nella guardiola,
cerca tra i mazzi di chiavi appesi al muro, ne prende uno, quindi attraversiamo il cortile sul
retro, proviamo alcune chiavi e finalmente la porticina si apre, possiamo entrare. Il
magazzino è piccolo e chiuso da tempo; cerchiamo al buio fra lavori di studenti ormai
adulti, attrezzi pesanti da scultore, cavalletti rotti, capitelli in pietra, grandi fogli di cartone
arrotolati, tutto appiccicoso di polvere e umidità; troviamo anche alcune tele inutilizzate,
ma sono troppo grandi, troppo vecchie, i telai deformati dall'acqua e incrostati di sale.
Scaviamo ancora e finalmente, sopra uno scaffale, ecco quello che ci vuole: tele quadrate,
candide e intatte. Esco nel cortile, ne verifico meglio lo stato, le conto. Ci sono tutte! Rido,
abbraccio Andrea, ma che mi prende oggi? Lo lascio a chiudere e riordinare, e corro verso
il laboratorio con il mio preziosissimo bottino.
6.
Oggi pomeriggio, l'appuntamento è alla Giudecca. Soffitto basso, odore di solvente,
cavalletti, tele, foto appuntate al muro. Alcuni colleghi sono già arrivati e armeggiano
intorno alle proprie opere; pochi ridono, qualcuno parla brevemente con i compagni. La
tensione ha contagiato tutti. Ecco le mie scatole, un barcone le ha portate questa mattina
con i lavori degli altri; mi sono assicurata mille volte che le tele fossero ben protette, che
l'acqua e gli scossoni non potessero fare danni, ma mentre tolgo il pluribol mi sudano le
mani.
Per settimane ho lavorato con frenesia. Ho interrotto le visite a musei e gallerie, ho ottenuto
il permesso di accedere al laboratorio anche di sera e la domenica, quando la scuola è
chiusa. Ho anche saltato alcune lezioni. Ma, passata la febbre creativa, sono tornata la
stessa di sempre; e ora che si tratta di parlare in pubblico, di mostrare la mia opera, di
illustrarne il senso e il valore, sono di nuovo nel panico. Nell'aula dove si svolgerà la
presentazione, il cranio gotico di Andrea sorge in tutto il suo splendore, e il suo abbraccio
da facchino mi accoglie con affetto. Tra il pubblico siedono amici, qualche genitore venuto
da lontano, i docenti, alcune signore veneziane troppo agghindate, un paio di giornalisti. Il
direttore dà il benvenuto, quindi Andrea proietta sul muro i propri video: Andrea in primo
piano, truccato da clown, fuma un enorme joint; Andrea sotto la doccia, che canta un brano
d'opera; Andrea distrugge un divano a calci e pugni; due energumeni vestiti di bianco
tentano di infilare Andrea, nudo, in un congelatore; Andrea introduce un incontro di boxe
con tre pugili. Andrea si gratta la testa.
Dopo un lungo silenzio e alcune domande, tocca a noi. I miei colleghi sfilano uno dopo
l'altro, chi imbarazzato chi istrionico, raccolgono la dose giusta di applausi e di
incoraggiamenti, tornano a sedersi tra le pacche sulle spalle e le gomitate degli amici. E
arriva il mio turno. Ho i capelli raccolti, una lunga gonna nera, il giacchino beige. Tutto in
ordine. Salgo gli scalini a passetti veloci, guardando fisso verso un angolo della pedana. Un
insegnante mi passa le tele, coperte; Andrea mi aiuta ad appenderle al fondale. Proviamo ad
allinearle, ma il risultato è pessimo. Rinuncio. Valuto l'effetto, e mi viene da piangere, ma
raddrizzo il collo e la schiena, prendo fiato, mi giro. Le luci dei faretti mi accecano, non
vedo il pubblico; dopo tutto, è quasi come essere sola.
"Mi chiamo Emily Mc Even, vengo da Boston. Il lavoro che presento oggi consiste in una
serie di nature morte molto tradizionali, dipinte a olio; deve molto anche all'insegnamento
del mio tutor italiano. Ho voluto girare un video con i pennelli; e il soggetto è qualcosa che
mi ha aiutata, in questi mesi a Venezia, a governare la mia paura"
Forse tutti hanno paura; ma io ne ho molta. Me ne sono difesa come ho potuto: la routine
mi ha sempre rassicurata, e all'idea di venire a Venezia, la mia prima reazione è stata di
panico. Avrei dovuto allontanarmi dalla mia famiglia, dalla scuola, dalla sicurezza del
giudizio dei miei insegnanti. Panico è stato a lungo; fino a quando ho intuito che, forse,
avrei potuto portare con me una piccola abitudine, qualcosa in grado di assumere in sé il
significato di ogni altra certezza.
Tolgo il lenzuolo, svelo le sette piccole tele quadrate.
Sulla prima, appoggiata su una tovaglia bianca e ritagliata su uno sfondo indefinito color
sabbia, ecco un'arancia. E' piena, lucida e rotonda; se ne può intuire la buccia spessa, pare
quasi di sentirne il peso. A guardare bene, se ne coglie ogni irregolarità, ogni minimo
avvallamento. E' bella, luminosa, da far venire l'acquolina.
Seconda tela: la buccia dell'arancia è stata incisa, a delimitare degli spicchi regolari. Le
fessure sono sottilissime, quasi completamente chiuse, si notano appena. Un solo spicchio
di buccia si discosta, di poco, dal frutto, e lascia visibile una sorta di ferita sottile, uno
spiraglio da cui si intuisce il biancore spugnoso delle fibre all'interno.
Terza tela: l'arancia è completamente sbucciata, e ancora intera. Troneggia nel mezzo del
fiore composto dagli spicchi di buccia, divaricati fino quasi ad appiattirsi sulla tovaglia. E'
monumentale nella sua simmetria, coperta di filamenti chiari e opachi. Mentre la osservo,
mi sento nuda anch'io, intuisco solo ora di aver dipinto un autoritratto. Non oso controllare
che nessuno se ne sia accorto, devo essere arrossita come nei momenti peggiori.
Quarta tela: la buccia è sempre aperta ed appiattita, ma l'arancia è spezzata. Manca uno
spicchio, e le due mezze arance giacciono una accanto all'altra, ancora quasi simmetriche;
in un punto la pellicola si è aperta e la ferita questa volta è rossa, viva.
Quinta tela: rimane mezza arancia soltanto, appoggiata un po' obliqua sulle bucce
scomposte. Dalla ferita esce una goccia di succo rosso e denso; la tovaglia è macchiata e
disseminata di frammenti di fibre colore del latte, quasi invisibili.
Sesta tela: le bucce sono ormai in disordine, la macchia sulla tovaglia è diventata un alone
rosato. Ci sono ancora due spicchi, di un altro c'è solo un pezzo e se ne vede colare il
succo, una macchia di colore scuro e intenso nel mezzo del piccolo dipinto.
Settima tela: dell'arancia rimane soltanto un mucchietto di bucce. La tovaglia è macchiata
in diversi punti; delle bucce, si intravvede appena il colore vivo all'esterno, e per il resto
tutto è bianco e neutro. Pare tornato il silenzio.
Anche la platea tace, per alcuni secondi. Quindi, qualcuno comincia lentamente a battere le
mani, e scoppia un applauso. Sento i fischi di entusiasmo dei colleghi, è un successo.
Arrossisco, guardo di nuovo verso il basso. Però sono contenta.
7.
L'aereo vola ormai da diverse ore. Dormo un poco, ma è un sonno leggero; e, nel
dormiveglia, sorrido.
"Beve qualcosa?"
Mi riscuoto di soprassalto. La mano corre alla tasca, è vuota. Certo…
"Succo d'arancia"
Scendo dall’aereo, ecco il bagaglio, e l'uscita. Le porte scorrevoli sembrano un sipario, che
si apre su... cosa? Assisterò allo spettacolo della mia famiglia che mi accoglie, o sarò
invece la prima attrice, e loro gli spettatori? Eccoli. Mi hanno vista. Mamma non sta nella
pelle, si fa strada, aggira le corsie, mi viene incontro per prima. James sorride tra sé e la
segue. Ci sono anche i ragazzi; Ernest mi saluta con un cenno e un sorriso, Harry finge di
non avermi ancora vista, o che non gli importi; troppa emozione per lui. E dopo sono
abbracci, occhiate curiose, una domanda in sospeso: sarà sempre Emily, questa giovane
donna che torna a casa? Resterà tutto com'era una volta? Per tutta la sera rimango al centro
di un turbine di domande. Solo dopo cena, finalmente, riesco a riposare; ma sono stanca e
frastornata, stento a prendere sonno. E in un attimo è mattina.
"Emily..."
Mi giro su un lato.
"Emily... sei sveglia?"
Certo mamma che sono sveglia, adesso.
"...hmm..."
"Coraggio, sennò chi mi compra le arance?"
E' il suo modo di farmi sentire di nuovo a casa. Resterei volentieri a letto, ma conosco bene
le regole non scritte della mia famiglia: early to bed and early to rise... Mi alzo lentamente,
faccio la doccia, mi vesto ed esco. Percorro i due isolati che separano il portone di casa
dalla bottega di Mr Fiorelli. Tutto è come sempre ma tutto è nuovo. Sarà la lunga assenza,
che fa sembrare estraneo il mio quartiere. I colori sono più vivi, gli odori più intensi, i
contorni più netti. All’ultimo incrocio, un particolare stonato mi fa rallentare il passo;
controllo l’orologio, sono le nove passate, perché è chiuso? Non c'è nemmeno una cassetta
di ortaggi all'esterno, la serranda è abbassata.
Ancora qualche passo, e riesco a leggere il cartello scritto a penna che avverte: 'Chiuso per
lutto'.
mercoledì 4 giugno 2008
Nata ieri
"Signora, nessuno le ha detto che il cervello del suo bambino non si sta sviluppando?"
Luca si mette le mani tra i capelli.
"Comunque facciamola lo stesso, questa amniocentesi. Per quel che serve..."
Silenzio.
L'ecografo scivola sulla pelle, sonda, scruta. La dottoressa disinfetta, buca, preleva; e io, che temevo di sentire il dolore dell'ago, non sento niente, potrebbero anche tagliarmi la pancia e non sentirei niente lo stesso.
"Si accomodi nella stanza accanto, la raggiungo tra poco"
Luca: "Anch'io?"
"Anche lei."
Un'ora e mezza. Per un'ora e mezza nessuno si è affacciato, nessuno ci ha detto né spiegato nulla. Di tanto in tanto prendevo fiato, mi asciugavo le lacrime e mandavo Luca a cercare aiuto, ma poi lo richiamavo appena usciva, non potevo rimanere da sola. Quindi, è ricomparsa la dottoressa.
"Trisomia 15. Il feto si sviluppa normalmente, ma non altrettanto il suo cervello. Non sono presenti i lobi, non c'è attività cerebrale. Non esiste alcuna possibilità di recupero. Raramente la gravidanza giunge a termine, se questo accade il neonato muore nel giro di qualche minuto o qualche ora. Venga con me che le prenoto una stanza."
Una stanza? Perché? Cosa devo fare in una stanza, qui?
"No guardi io adesso vado a casa mia, ho fatto un'amniocentesi e devo riposare."
"Signora forse non ci siamo capiti. Non c'è nessuna possibilità di sviluppo del feto. Lei deve abortire, e deve farlo il prima possibile."
"Luca..."
Siamo tornati a casa. Luca è andato a prendere Gaia dai nonni, e l'abbiamo messa a nanna. Quindi abbiamo passato la notte a parlare, a digitare nuove parole su Google, a tacere e a piangere. Il mattino dopo ho accompagnato Gaia all'asilo e sono tornata all'ospedale. Ho chiesto della dottoressa.
"Ha un appuntamento?"
"No. Mi chiamo Renata Monti, le dica che sono qui per favore."
L'infermiera compone un numero breve; la porta si apre.
"Ho bisogno di sapere che davvero non c'è nessun'altra possibilità."
"Non c'è."
"E di sapere quali sono le cause. Genetiche? Io e mio marito abbiamo già una figlia, è normale, sana. Vorremmo fare gli esami che servono, per evitare che succeda di nuovo."
"Si può fare. Ma non glie lo consiglio. Succede, è un fatto statistico. Oggi succede più spesso, perché le donne fanno figli in età più avanzata, e il rischio cresce. Ecco, questo è il referto del Fish Test."
"Cos'è?"
"Un esame rapido sul liquido amniotico."
"Ma per i risultati dell'amniocentesi ci vogliono molti giorni..."
"Non se si sa già cosa cercare. Trisomia 15. Bastava l'ecografia, comunque... ecco."
Altro numero breve.
"Infermiera, venga qui con l'agenda."
Di pomeriggio sono andata al lavoro. Sarei dovuta rimanere a casa, a riposo, per limitare i rischi. Ma quali rischi. Porto ancora in giro una pancia, tutto questo non ha senso. La stanza è prenotata per martedì prossimo. Oggi è mercoledì. Domani non c'era posto, dopodomani nemmeno; nel fine settimana niente ricoveri programmati, lunedì è festa nazionale... martedì. In due giorni ho lavorato più di venti ore; più o meno come al solito. C'è un nuovo stagista, e una delle due dipendenti dell'agenzia ha dato le dimissioni la scorsa settimana. da fare, ce n'è. E almeno non ci penso.
Il fine settimana l'ho passato al mare con Luca e Gaia. Sarebbe venuta anche mia mamma, ma volevo restare sola con loro. Sto viziando Gaia come non mai.
E poi, è arrivato martedì. A Gaia ho detto che andavo a Roma per lavoro, e che le avrei portato un regalo delle Winx. L'ho lasciata dai nonni. Mi presento in reparto; l'infermiere scorre la lista di nomi e cognomi.
"Si, eccola. Ma non c'è scritto il motivo del ricovero, cosa deve fare?"
E' una pessima giornata.
"Interruzione di gravidanza per malformazione del feto. Ventesima settimana. E non voglio stare in camera con nessun altro, se serve pago ma lasciatemi da sola."
Se mi mettono accanto a un'interruzione volontaria impazzisco.
Luca tace. L'infermiere abbassa lo sguardo, e da questo momento sono tutti gentilissimi. Scriverò una lettera al giornale, per raccontare quanto tutti siano stati gentili. Mi portano in camera, il reparto è lo stesso ma la corsia è separata da quella dell'ostetricia. Ha senso. Luca non potrebbe restare, ma nessuno dice niente.
"Cosa succede ora? Ho bisogno di sapere cosa mi fate."
Mi hanno spiegato. Niente da mangiare né da bere, fino alla fine. Ossitocina. E poi si aspetta. D'accordo, non posso che collaborare, e cercare di non pensare a nulla.
"E non voglio vederlo, non voglio sapere niente, maschio o femmina, non importa."
"Questo ce lo dirà dopo."
E' stato molto dopo. Tre applicazioni di ossitocina, tre flebo di fisiologica e, ininterrottamente, contrazioni, vomito e diarrea. Luca non si è mai mosso, ha parlato pochissimo. L'ostetrica va e viene, poi comincia il turno successivo, e dopo altre, molte, ore vedo tornare la prima. Dopo sei ore chiedevo pietà; dopo dodici urlavo, il dolore era troppo. Io, che al primo parto non ho aperto bocca. Possibile che non si possa avere un'anestesia, bisogna davvero vivere tutto? Ma non si può. Interromperebbe le contrazioni.
E dopo sedici ore ecco, ci siamo. Con l'ostetrica entra un'infermiera. Rimango sul letto, stendono un lenzuolo tra me e mio figlio, Luca si sposta e mi tiene la mano. Sono bastati quattro centimetri di dilatazione, nulla. Crescita nella norma, pesa centotrenta grammi. E' pre-morto. Cosa vorrà dire.
E' finita. Come sempre, il dolore scompare all'improvviso. Quello fisico. Rimane un insopportabile, un enorme e incolmabile vuoto, una spossatezza senza senso.
"E' allergica allo iodio?"
"Come?"
"E' allergica allo iodio? Per l'anestesia."
"Ma non lo so... non credo."
"Firmi qui."
Firmo.
"Quale anestesia?"
"Per il raschiamento. Anche qui."
"Cos'è?"
"Il consenso informato."
Firmo.
Anestesia totale.
Totale! Per il raschiamento. Non lo so, se sono allergica. Non ho mai fatto un'anestesia. Ho firmato, sono d'accordo, accetto tutto quello che mi faranno. Ma come! In anestesia. Ma allora davvero non si può? Non si poteva...
Quando mi sveglio, Luca è di nuovo con me. Stessa camera. Bocca impastata, nausea, e sete, tanta sete. Bevo, vomito. Ribevo. Sono le undici di mattina, è di nuovo mercoledì.
Alle quattro di pomeriggio, sono riuscita a mangiare qualcosa, non mi reggo in piedi. Passa l'ostetrica, mi tasta la pancia floscia.
"A posto."
Mi accompagnano a fare un'ecografia, il mio utero è quasi tornato alle dimensioni normali.
"Questa volta mi prescrivete il Methergin?"
Dopo il primo parto ho avuto un'emorragia grave, ricovero, allarme. Me lo prescrivono.
"Bene, può andare."
"Scusi?"
"E' dimessa, può tornare a casa. Torni fra tre giorni per una visita di controllo."
Siamo tornati a casa. Luca è andato a prendere Gaia, quando è arrivata le ho dato il suo regalo, la borsa delle Winx. Ora la porta sempre, e io non la sopporto. Prima di dormire mi dà un bacio sulla pancia, come sempre. La mia pancia è cambiata, e lei non se n'è accorta; meglio così. Dormiamo.
Ma l'indomani, bisogna parlare. Vorrei dirle cos'è successo davvero, Luca preferisce trovare un altro modo.
"Va bene, però parli tu."
D'accordo.
"Gaia... sai... ci sono bambini che nascono, e bambini che tornano subito in cielo, e diventano angioletti."
Ci guarda. Guarda suo padre, guarda me. Devo, devo riuscire a non piangere. Non deve vedermi piangere. La vedo cercare un appiglio, un sorriso, un motivo qualsiasi per non capire. Poi scoppia a piangere, lei si, lei può e deve. La stringiamo, la abbracciamo, avrai tutti i regali delle Winx che vorrai, penso. Oggi niente asilo, stiamo a casa e giochiamo insieme.
Di sera, sta guardando un cartone animato, distesa a pancia in giù sul divano, con il mento appoggiato alle mani. Io, in cucina, preparo la cena e ascolto le vocine cinguettanti che escono dalla televisione. Luca come sempre lavora, al tavolo del soggiorno.
"Mamma?"
Non distoglie lo sguardo dallo schermo.
"Si, amore."
"Il fratellino è morto?"
Silenzio. Luca e io ci guardiamo, poi a lui esce una lacrima e si china sui libri.
"Si, è morto."
"Ah."
Poi, non ha più chiesto niente.
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