Philip Roth, il migliore anche se non scrive
di ELENA STANCANELLI
Prima di decidere di smettere, spiegava anche ieri in un'intervista pubblicata sul New York Times in occasione dell'uscita del Teatro di Sabbath in svedese, ho riletto tutti i miei 31 romanzi. Volevo capire se avevo sprecato il mio tempo. Non puoi esserne sicuro.
La mia conclusione, una volta finita questa maratona di lettura, riecheggia la risposta data da un uomo, un mio eroe: il pugile Joe Louis. Campione del mondo dei pesi massimi per 12 anni, dal 1937 al 1949, Joe Louis era un ragazzino nato poverissimo e con una forma misteriosa di difficoltà nel linguaggio. Non proprio una malattia, non proprio un autismo, non proprio dislessia. Semplicemente Joe Louis parlava male e quindi parlava molto poco. Così, quando alla fine della sua lunghissima carriere i giornalisti gli chiedono se si sente soddisfatto, se c'è qualcosa che avrebbe fatto diversamente, se ha dei rimpianti, lui risponde con dieci parole in tutto:
"I did the best I could with what I had". Tradurlo in italiano è un peccato, perché al solito servono molte parole in più e si perde l'incisività. Ma viene più o meno: ho fatto il meglio che ho potuto con i mezzi che avevo.
Ecco, dice Philip Roth, anch'io potrei rispondere così "I did the best I could with what I had".
E poi dice un'altra cosa, rispondendo all'ennesima domanda sul Nobel che non ha mai (ancora) ricevuto: mi domando spesso se avrei incontrato un maggiore favore nell'Accademia di Svezia intitolando il Lamento di Portnoy "The Orgasm Under Rapacious Capitalism" (non fatemelo tradurre, vi prego: è così perfetto).
Grazie Philip Roth. Di qua e di là dalla rabbia sei sempre il migliore.
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