Romain Gary, Mio caro pitone
Non nascondo che sarei assai triste, a dir poco, se venissi obbligato a fare uso di parole e forme di lungo corso, nel senso corrente, impedendo così alle mie parole di trovare uno sbocco. […] …voglio fortemente che il linguaggio impiegato nel presente scritto viva una propria indipendenza e abbia sempre la possibilità di ricomporre altrimenti il proprio senso, al di là dell’uso corrente. Già, perché è la speranza stessa a esigere che il vocabolario non sia condannato all’immobilità perenne, pena la sua sconfitta.
Non nascondo che sarei assai triste, a dir poco, se venissi obbligato a fare uso di parole e forme di lungo corso, nel senso corrente, impedendo così alle mie parole di trovare uno sbocco. […] …voglio fortemente che il linguaggio impiegato nel presente scritto viva una propria indipendenza e abbia sempre la possibilità di ricomporre altrimenti il proprio senso, al di là dell’uso corrente. Già, perché è la speranza stessa a esigere che il vocabolario non sia condannato all’immobilità perenne, pena la sua sconfitta.
Già dalla prima pagina, il romanzo si presenta come manifesto della libertà di essere e di esprimersi in maniera autentica. Per questo, leggerlo non è sempre facile, il linguaggio è così libero da divenire poco comprensibile, e pure i pensieri di Monsieur Cousin seguono percorsi ardui.
Non si sa mai abbastanza quanto sia straordinaria la forza della nostra debolezza e quanto sia difficile resisterle.
Cousin tenta di passare inosservato, di seguire tutte le regole, di apparire “normale”; è disposto, per questo, perfino a ingoiare merda (sic!). Ma quella che lui chiama debolezza è ciò che lo rende diverso, unico, ciò lo salva dalla semplice esistenza, dal vivere soltanto in conseguenza dell’essere venuti al mondo per vie urinarie; e gli offre una possibilità di esistenza autentica.
Anch’io avrei voluto essere un altro, avrei voluto essere me stesso.
Nella rassicurante routine dell’impiegato che si occupa di statistica, Cousin non trova possibilità di amore, la prospettiva di scoprirsi lo atterrisce, ogni tentativo finisce in farsa. E’ nel suo bilocale che trova il modo di procurarsi gli abbracci di cui tanto ha bisogno, adottando un pitone di due metri e venti, Gros-Calin, che lo avvolge e lo consola, e che Cousin ama al punto di divenire pitone lui stesso. Tra gli umani, sono le buone puttane, rispettose di poche regole chiare e inequivoche, le uniche capaci di alleviare la sua solitudine e lo spaesamento. Perfino la sua collega signorina Dreyfus, inutilmente amata per tanto tempo, soltanto in un bordello potrà divenire reale ed “amabile”. Che sia questa, la possibilità di amore che gli è data? E accetterà la signorina Dreyfus di convivere con un pitone?
Si arrotola il pitone, si annodano i pensieri di Cousin, e pure la narrazione segue un andamento a spirale. Il cosiddetto finale ecologico lascia sperare in un’apertura diversa, politica e collettiva, alla possibilità di un’esistenza reale. Il fattorino licenziato per attività sovversive, l’assistente dell’ospedale psichiatrico che ha riconosciuto in Cousin il pitone capace di fingere per tornare libero, la signorina Dreyfus che si vergogna di servire da impiegata e preferisce essere una buona puttana: sono loro che non intendono più adattarsi, loro ad essere capaci di esistenze vere. A Cousin/Gros-Calin tremano le gambe, che non ha in quanto pitone, ma è finalmente così debole da aver trovato il coraggio di sperare. Forse perfino di nascere.
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