Berlino è una città con tanti scheletri nell’armadio.
La differenza con altri posti è che a Berlino gli armadi li aprono e provano magari a dare aria alle stanze, ma non è facile, bisognerà lasciare tutto aperto per un bel po’ prima che si possa di nuovo respirare. E intanto si vedono le ragnatele, la muffa, si sente odore di marcio e decomposizione.
Il muro non c’è più, rimane una lunga cicatrice. La fretta di costruire può aver indotto a credere che ci fosse una volontà di cancellare e di negare il passato. Forse per qualche tempo è stato vero; ma, ventidue anni dopo l’abbattimento del muro, non è questo che sta succedendo e non è questo che appare. Emergono invece i segni di una volontà diversa, di mostrare di più, di allestire qualcosa di più esplicito, di chiaro, di didattico, che aiuti a ricordare.
Fino a qui sarebbe facile: il muro è il simbolo della città, rappresenta ciò che la parte buona e positiva di Berlino è stata in grado di superare. Ma Berlino non si ferma qui. Berlino lavora per ricordare anche le proprie cattive azioni, il proprio lato oscuro. La Topografia del terrore è stata voluta dai cittadini, per mantenere traccia dei mostri. Mostri che sono “loro”, sono altri; ma che per un tedesco, un berlinese soprattutto, sono necessariamente, dolorosamente anche “noi”. Chi si occupava di eliminare gli zingari, gli ebrei, gli asociali, i malati: dopo, che fine hanno fatto, tutti? Ecco le foto di processi, ma anche di pensionati che innaffiano il giardino di casa, nonni con i nipoti, persone normali che sono normalmente tornate a vivere, magari con impieghi di riguardo nella nuova amministrazione democratica.
Poi basta attraversare il cortile di pietre scure, che sembrano ancora macerie; la cicatrice del muro; e la strada. Ed ecco il museo che espone l’archivio della StaSi, aperto appena un mese fa. StaSi: Sicurezza dello Stato. Berlino ha aperto l’archivio, ha letto, è rabbrividita: niente sarebbe stato più semplice che richiudere, negare, far sparire. Invece, ecco esposti i rapporti di ragazzi di 17 anni su loro compagni di scuola; riprese nascoste che mostrano momenti privati di persone qualunque, una coppia che passeggia, gruppetti di punk che stazionano a un incrocio, una segretaria cinquantenne al lavoro nel suo ufficio. Almeno una persona su cento era un informatore; di più in alcuni ambienti, come l’impiego pubblico. Nell’esercito si arrivava a un informatore ogni quattro soldati. Non sarebbe stato possibile processare tutti. Perciò tutti, o quasi tutti, fanno oggi la spesa negli stessi supermercati di chi un tempo osservavano.
Qualche chilometro di tram, ogni fermata annunciata e segnalata con cura, e intanto là fuori il centro diventa periferia, orientale. Si scende quando si è ormai quasi persa la speranza di arrivare. Restano da percorrere ancora alcuni isolati spogli, trascurati; in fondo alla strada, un muro. In mezzo al muro, un cancello. E dietro il cancello, la principale delle sedici prigioni della StaSi. Perché Berlino è capitale, e lo è sempre. Torture fisiche in ossequio alla tradizione staliniana. Dopo il 1953, ambienti accoglienti, metodi più umani: solo violenza psicologica. Chi accompagna i turisti a visitare celle e sale per gli interrogatori sono oggi ex prigionieri. Quelli che ne sono usciti con un equilibrio mentale sufficiente; gli altri, no.
Anche qui, sarebbe stato semplice chiudere il cancello e attendere che il tempo galantuomo passasse anche di qui. Come, di nuovo in centro, sarebbe stato semplice, e conveniente, costruire grattacieli o centri commerciali; invece, Berlino ha dedicato un intero isolato a due passi dalla Porta di Brandeburgo ai blocchi cupi del memoriale dell’Olocausto. Ha lasciato uno spazio vuoto dove un tempo sorgeva, e si inabissava nel terreno, il bunker di Hitler.
Mi chiedo con quale sentimento ci si possa aggirare per questa città: curiosità, stupore, sofferenza, insofferenza, senso di colpa o sollievo. Forse un insieme di tutto questo, da uscirne spossati. Per poi volerci, immagino, rientrare.
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