All'improvviso un gemito sordo, irreprimibile, esce dalla bocca di Maria. Giuseppe si agita, domanda, Sono i dolori che cominciano, e lei risponde, Sì, ma proprio in quell'istante un'espressione di incredulità le si diffonde sul viso, come se si fosse trovata di fronte a qualcosa di inaccessibile alla sua comprensione, fatto sta che, in verità, il dolore non lo aveva mica avvertito, o meglio, lo aveva sentito, sì, ma come un dolore provato in realtà da qualcun altro, ma da chi, da quel figlio dentro di lei, come può succedere una cosa simile, che un corpo possa avvertire un dolore che non gli appartiene, e per di più consapevolmente, e comunque sentirlo ancora di più come se fosse un proprio dolore, o magari non esattamente in questo modo e con queste parole, diciamo piuttosto come un'eco che, per una strana deformazione dei fenomeni acustici, si udisse con maggiore intensità del suono che l'ha prodotta. Titubante, quasi non volendolo sapere, Giuseppe le domandò, Continua a dolerti, e lei non sa come rispondergli, mentirebbe se dicesse di no, mentirebbe se dicesse di sì, perciò tace, ma il dolore c'è, e lei lo sente, eppure è come se stesse solo guardandolo, senza poter fare niente, nel ventre le pulsano i dolori di suo figlio, e lei, così lontana, non può aiutarlo.
[José Saramago, Il vangelo secondo Gesù Cristo]
Forse nelle doglie del parto si prefigura il dolore di Maria impotente sotto la croce.
Forse in questo dolore della madre che soffre al posto di suo figlio si rispecchia la Sua morte per salvare gli uomini.
Forse.
Trovo però sorprendente la precisione con cui Saramago ha saputo descrivere lo straniamento del travaglio, quando la sofferenza si fa insopportabile, quando il dolore è tanto da sembrare troppo intenso, irreale. Quando una donna sente di non poter andare oltre, e pure si trova attimi dopo ancora là, ancora viva e ancora sofferente, e allora qualcosa in lei suggerisce non è possibile, non può essere vero, se fosse vero sarei morta, perciò, perciò, non devo essere io che soffro in questo modo. Deve essere per forza qualcun altro. E gli urli che emette, la donna li ascolta come se non fossero suoi. Gli strappi nella carne li sente, e insieme li osserva da fuori. E capisce infine che quella sensazione di essere posseduta, sempre, da qualcuno che non è lei, sensazione gradevole e spaventosa che la accompagna da circa nove mesi, non era che una preparazione a questo.
E' questa la verginità a cui non c'è ritorno. E' questa l'esperienza irreversibile. E' questo il miracolo di Maria, che partorisce e rimane immutata: parthenos, nubile, libera, Iside, Ishtar, pietosa generosa padrona di se stessa.
Mi avresti fatto tornare la voglia di rileggere questo libro se non fosse che mi sento ancora troppo vulnerabile.
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