Irène Némirovsky, Il calore del sangue
"Nell'amore coniugale c'è una potenza sovrumana."
La Némirovsky sembra crederci, sembra voler ribadire una volta di più l'esistenza di quella pace dei sensi che dovrebbe subentrare, a un certo punto della vita, alle passioni che scuotono l'animo e la carne.
Nuovamente delusa, prendo atto. Ma siamo solo a pagina 37, e questa volta molto deve avvenire.
Ho capito, ora, l'entusiasmo suscitato dalla scrittura di Irène Némirovsky. Scrittura fluida, che si infiltra sotto la roccia non scalfibile delle convenzioni, che lentamente scivola lungo i meandri sotterranei dei sentimenti nascosti e poco, poco alla volta li consuma, fino ad estenuarli.
Goccia dopo goccia, le pagine di questo romanzo scavano sotto la superficie dell'idillio rurale, ci accompagnano fino al cuore della passione, al fuoco sepolto giù, in fondo.
Non è Colette la protagonista del Calore del sangue. Non è Silvio, o Sylvestre. E nemmeno la selvaggia e fiera e inquieta Brigitte.
Ma piuttosto la coppia apparentemente indistruttibile e perfetta, Hélène e François, l'Amore Coniugale. Che si sgretola in un momento appena il fiume bollente e sotterraneo riemerge portando con sé ricordi di vita vera.
La pagina citata sempre, da tutti, è sempre la stessa; e nemmeno io mi esimo dal riprenderla:
"In fin dei conti, se il dilemma è: 'Chi conosce la donna autentica, l'amante o il marito? Sono davvero così diverse l'una dall'altra? O sono forse sottilmente mescolate e indistinguibili? O sono plasmate con due sostanze che unite ne generano una terza, non più somigliante ad alcuna delle precedenti?', forse allora né il marito né l'amante conoscono la donna autentica. Eppure, è la donna più semplice che ci sia."
parole scritte o dette, parole in versi o in prosa, parole per convincere o per ricordare, per confidarsi, redimersi o mentire: questo spazio è dedicato alla lettura, alla scrittura, e alla vita.
lunedì 29 agosto 2011
martedì 23 agosto 2011
Distanza (di un bacio)
Ecco: mi piacerebbe descriverla, e non ci riesco. E' probabile che sin dal primo istante io l'abbia guardata troppo da vicino, come sempre avviene con le cose che si desiderano molto: sapreste dire che forma e colore ha il frutto che state addentando? Quando si ama una donna come io ho amato lei, si ha l'impressione di averla vista sin dal primo giorno alla distanza di un bacio.
[Irène Némirovsky, Il calore del sangue]
[Irène Némirovsky, Il calore del sangue]
lunedì 22 agosto 2011
Giappone
Yasunari Kawabata, Il paese delle nevi
A inizio lettura ho creduto che fosse necessario qualche accenno alla cultura giapponese, per cominciare a collocare narrazione, personaggi, atmosfere. Illusa! Come se per avvicinarsi a qualcosa di così lontano, e così diverso, e soprattutto così complesso, potesse bastare qualche pennellata di colore qua e là...
A inizio lettura ho creduto che fosse necessario qualche accenno alla cultura giapponese, per cominciare a collocare narrazione, personaggi, atmosfere. Illusa! Come se per avvicinarsi a qualcosa di così lontano, e così diverso, e soprattutto così complesso, potesse bastare qualche pennellata di colore qua e là...
No, niente da fare: per dire la mia sul significato dell'uso dei colori, per azzardarmi a interpretare gli stati d'animo inespressi e quelli che a volte prorompono, per tentare un'interpretazione quale che sia, ho strumenti inadatti, spuntati, rozzi. Mi muoverei come il famoso elefante (...) in cristalleria, farei uno scempio di quanto di delicato e sospeso c'è in questo romanzo - ed è molto.
Candidamente mi aspettavo che alla fine i nodi si sarebbero sciolti, che come in un giallo tascabile il Narratore ci avrebbe rivelato di che natura fosse il legame tra Komako, Yoko e Yukio, se davvero la giovane fosse pazza e perché, o se invece la pazza –per amore?- non fosse piuttosto Komako stessa, e poi che cosa sia realmente questa pretesa pazzia… Invece, niente. Yukio è morto, morta è la maestra di piano, e mai Komako è stata al cimitero a visitarli. E’ grave, questo? E’ ammissibile, nel Giappone del secolo scorso? Morirà Yoko, e qualcuno sembrerà soffrire…
Bianca la neve, bianco il colore del lutto, bianchi i freschi tessuti estivi. Rossi il fuoco, l’acero in autunno, l’orlo del sottokimono di Komako: qualcosa a che fare con il colore nuziale? Chi sa.
La fisicità di Komako poi è così diversa da quella che impariamo a immaginare osservando le immagini di geisha, si tratti di antiche incisioni o moderne fotografie. La si pensa donna immobile, raffinata, dall’estetica impeccabile; invece Komako fuma, beve molto, spesso si aggrappa a un braccio o cade malamente addosso a Shimamura, gli si presenta in camera di notte, ride e piange in maniera sguaiata. Di che si tratta? Umori volubili normali in una ragazza di vent’anni… o forse è altro? Forse è errata l’immagine di geisha costruita fino ad or, ed è più corretta questa? Giovane donna sola, con un traballante progetto di vita; donna a tratti seducente, invitante, ad altri in fuga, capace di atti sensuali come un rapido morso, e di scene isteriche e apparentemente insensate. Cosa va attribuito al suo personaggio, cos’altro semplicemente al ‘tipo’?
E il treno? Quanti treni nella letteratura giapponese. Treni che partono verso il cielo, treni che deragliano, treni nel silenzio e treni nel chiasso della metropoli, treni che attraversano gallerie e fondali marini, treni antiquati e treni-proiettle… E questo? Il treno che porta Shimamura al Paese delle nevi, e poi inesorabilmente lo riporta al suo Altrove, che treno sarà? A quali altri treni vorrà alludere? Quali treni avrà generato a sua volta?
E il caldo, il freddo. E la presenza e l’assenza del sesso… e gli insetti, questo continuo ronzio di tarme, falene, bachi, un fastidio incessante, una continua agonia… perché?
Basta con le domande. La lettura di questo romanzo ne ha sollevate moltissime, ed è un suo grande merito. Kawabata Yasunari, affascinato dall’Occidente, ci regala un ritratto delicato e profondissimo del suo Paese. Senza aver affrontato la lettura agostana del suo Paese delle nevi, difficilmente saprei ora che esistono gli onsen (dove è preferibile non presentarsi se si è tatuati) e le relative onsen-geisha, con caratteristiche diverse dalle geiko tradizionali. Non saprei cos’è un kotatsu, né che esiste una carpa il cui nome significa rosso-bianco (carpa koi della varietà Kohaku). Non avrei idea di come si indossa un kimono, e che esista anche un sottokimono più facile da lavare, e che si chiami (ma non sempre) juban e che possa essere portato da donne e da uomini, e che nelle donne il suo colore possa indicare lo stato di maiko (se rosso) o di geiko (se bianco); e che il passaggio da uno stato all’altro abbia anch’esso un nome, mizuage… Non saprei nemmeno del rapporto tra Yasunari Kawabata e Mishima Yukio, né del suicidio di entrambi.
Ma da raccogliere frammenti di una cultura, a sbilanciarsi nell’interpretazione di un romanzo breve e complesso come il Paese delle nevi, ce ne passa… perciò mi fermo qui, tanto più che è finita ora anche la Storia di erbe fluttuanti (http://tinyurl.com/3d4mdmg) che scorreva muto in sottofondo, ad arricchire di immagini questo paese di fantasia che rimane tuttora ai miei occhi il Giappone.
Approfondimenti in:
http://www.anobii.com/forum_thread?topicId=3172847
http://www.anobii.com/forum_thread?topicId=3173328
http://www.anobii.com/forum_thread?topicId=3173714
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sabato 20 agosto 2011
Nausea
Questa mattina ho letto su Internazionale l'ultimo racconto di Stephen King, Herman Wouk è ancora vivo, nella traduzione di Wu Ming 1.
La nausea mi è rimasta fino a sera.
La nausea mi è rimasta fino a sera.
martedì 16 agosto 2011
Assirtidi
La grande estate ferisce; in quell'orizzonte che si spalanca c'è tutto e anche tutto quello che si è perduto e si continuerà a perdere. E' così facile - anche se davanti a quel mare non si capisce come possa accadere - scordare di essere figli di re e andarsene per il mondo a bussare come mendicanti a porte straniere. [...] ogni estate è unica e irripetibile, una dopo l'altra sfilano come i grani di un rosario, il tempo li arrotonda come sassi sulla spiaggia, fra l'uno e l'altro si apre un infinito.
[...]
Cherso, Crepsa, Crexa, Chersinium, Kres, Cres - nomi latini, illiri, slavi, italiani. La vana ricerca di purezza etnica scende alle radici più antiche, si accapiglia per etimologie e grafie, nella smania di appurare di quale stirpe fosse il piede che per primo ha calcato le spiagge bianche e si è graffiato sui rovi della fitta macchia mediterranea, come se ciò attestasse maggiore autenticità e diritto al possesso di queste acque turchesi e di questi aromi del vento.
La discesa non raggiunge mai un fondo ultimo o primo, non arriva mai all'Origine. A grattare un cognome italianizzato si riscopre lo strato slavo, un Bussani è un Bussanich, ma se si continua viene talora fuori uno strato ancor più antico, un nome venuto dall'altra sponda dell'Adriatico o da altrove; i nomi rimbalzano da una riva e da una grafia all'altra, il terreno sprofonda, le acque della vita sono una palude promiscua e cedevole.
[...]
Cherso e Lussino, con il loro arcipelago, si chiamavano anche Absirtides o Apsirtides, dal nome del fratello di Medea che la maga, per amore di Giasone, aveva attirato in un tranello mortale su queste acque; dal suo corpo gettato a pezzi in mare nacquero le isole.
[...]
La leggenda che fa sfociare il Danubio nell'Adriatico dice il desiderio di sciogliere le scorie di paure, ossessioni, pudori, deliri di difesa - di cui è così greve il continente attraversato dal fiume - nella grande persuasione marina, abbandono disteso, puro presente della vita che basta a se stessa e non si consuma nella corsa verso mete da raggiungere, nell'ansia di fare, ossia di aver già fatto e già vissuto, ma è felicità senza meta e senza assillo, eternità e autosufficienza dell'attimo.
[...]
Se il desiderio di vivere è la causa del male e del dolore, il mare è devastante, perché intensifica la gioia e la sete della vita, è la seduzione del suo infinito ripetersi e rigenerarsi. Nella luce del mare le cose acquistano un'intensità assoluta, troppo intensa per i sensi che la percepiscono, epifania insostenibile.
[Claudio Magris, "Assirtidi" in Microcosmi]
[...]
Cherso, Crepsa, Crexa, Chersinium, Kres, Cres - nomi latini, illiri, slavi, italiani. La vana ricerca di purezza etnica scende alle radici più antiche, si accapiglia per etimologie e grafie, nella smania di appurare di quale stirpe fosse il piede che per primo ha calcato le spiagge bianche e si è graffiato sui rovi della fitta macchia mediterranea, come se ciò attestasse maggiore autenticità e diritto al possesso di queste acque turchesi e di questi aromi del vento.
La discesa non raggiunge mai un fondo ultimo o primo, non arriva mai all'Origine. A grattare un cognome italianizzato si riscopre lo strato slavo, un Bussani è un Bussanich, ma se si continua viene talora fuori uno strato ancor più antico, un nome venuto dall'altra sponda dell'Adriatico o da altrove; i nomi rimbalzano da una riva e da una grafia all'altra, il terreno sprofonda, le acque della vita sono una palude promiscua e cedevole.
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Cherso e Lussino, con il loro arcipelago, si chiamavano anche Absirtides o Apsirtides, dal nome del fratello di Medea che la maga, per amore di Giasone, aveva attirato in un tranello mortale su queste acque; dal suo corpo gettato a pezzi in mare nacquero le isole.
[...]
La leggenda che fa sfociare il Danubio nell'Adriatico dice il desiderio di sciogliere le scorie di paure, ossessioni, pudori, deliri di difesa - di cui è così greve il continente attraversato dal fiume - nella grande persuasione marina, abbandono disteso, puro presente della vita che basta a se stessa e non si consuma nella corsa verso mete da raggiungere, nell'ansia di fare, ossia di aver già fatto e già vissuto, ma è felicità senza meta e senza assillo, eternità e autosufficienza dell'attimo.
[...]
Se il desiderio di vivere è la causa del male e del dolore, il mare è devastante, perché intensifica la gioia e la sete della vita, è la seduzione del suo infinito ripetersi e rigenerarsi. Nella luce del mare le cose acquistano un'intensità assoluta, troppo intensa per i sensi che la percepiscono, epifania insostenibile.
[Claudio Magris, "Assirtidi" in Microcosmi]
Ubicazione:
Ossero, Croazia
Scrittura commerciale
Paul Auster, Sbarcare il lunario
Romanzo di formazione?
No. Soltanto, come indica diligentemente il sottotitolo, "Cronaca di un iniziale fallimento".
Può darsi che l'intenzione sia quella di incoraggiare i tanti che si dibattono in fallimenti veri e definitivi; ma questo racconto è di qualche interesse soltanto grazie al lieto fine (leggi: successo planetario) che rimane sottinteso.
E' la prova concreta che "la carriera [di Paul Auster] di scrittore commerciale, di autore di bestseller, non è affatto finita.
Romanzo di formazione?
No. Soltanto, come indica diligentemente il sottotitolo, "Cronaca di un iniziale fallimento".
Può darsi che l'intenzione sia quella di incoraggiare i tanti che si dibattono in fallimenti veri e definitivi; ma questo racconto è di qualche interesse soltanto grazie al lieto fine (leggi: successo planetario) che rimane sottinteso.
E' la prova concreta che "la carriera [di Paul Auster] di scrittore commerciale, di autore di bestseller, non è affatto finita.
sabato 13 agosto 2011
giovedì 11 agosto 2011
martedì 9 agosto 2011
giovedì 4 agosto 2011
martedì 2 agosto 2011
Petrolio, o della Bruttezza. E della Verità.
Fondamentalmente la petroliera era una fabbrica galleggiante, e più che introdurmi a una vita esotica e smargiassa, mi insegnò a vendermi come operaio dell'industria. Adesso ero uno fra milioni, un insetto che sgobbava al fianco di innumerevoli altri insetti, e ogni mansione che eseguivo rientrava nel grande, opprimente sistema del capitalismo americano. Il petrolio era la fonte primaria della ricchezza, la materia grezza che alimentava la macchina del profitto e la teneva in corsa, e io ero soddisfatto di trovarmi dove mi trovavo, ero grato alla sorte di avermi catapultato nel ventre della belva. [...]
La bruttezza era così universale, così profondamente insita nell'accumulo di denaro, e nel potere conferito dal denaro a chi se ne arricchiva - al punto di deturpare il paesaggio, di sconvolgere il mondo naturale - che a denti stretti incominciai a rispettarla. Vai al fondo delle cose, mi dicevo, e l'aspetto del mondo è questo. Per male che se ne potesse pensare, quella bruttezza era la verità.
[Paul Auster, Sbarcare il lunario]
La bruttezza era così universale, così profondamente insita nell'accumulo di denaro, e nel potere conferito dal denaro a chi se ne arricchiva - al punto di deturpare il paesaggio, di sconvolgere il mondo naturale - che a denti stretti incominciai a rispettarla. Vai al fondo delle cose, mi dicevo, e l'aspetto del mondo è questo. Per male che se ne potesse pensare, quella bruttezza era la verità.
[Paul Auster, Sbarcare il lunario]
lunedì 1 agosto 2011
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