Sbagliare strada. Perdere l’aereo. Dimenticare la carta di credito al sexy-shop. Accorgersi di non aver messo il rullino nella macchina fotografica. Buttare via la ricevuta del parcheggio dell’aeroporto. Arrivare alle 14.05 a una visita che incomincia alle 14, dimenticando che siamo in Germania; e dover aspettare un’ora prima che cominci la prossima.
parole scritte o dette, parole in versi o in prosa, parole per convincere o per ricordare, per confidarsi, redimersi o mentire: questo spazio è dedicato alla lettura, alla scrittura, e alla vita.
lunedì 28 febbraio 2011
domenica 27 febbraio 2011
Berlino: il Muro
- Divide a mezzo una città.
Sbagliato. Il muro non è una linea retta, ma una forma chiusa. Circonda, non scinde. Per questo la donna-angelo di cui Damiel si innamora dice che a Berlino non ci si può perdere. Il muro corre intorno a Berlino ovest, e non è più così chiaro se prigioniero sia chi è stato accerchiato, o chi è rimasto fuori.
Il muro era lungo centosessanta chilometri; e lo è ancora, solo che non lo si vede più, e ad attraversarlo si sente appena un leggero brivido. Forse un terzo del muro è ciò che siamo abituati a immaginare: pannelli di cemento colorati su un lato, e al di là case appena un po’ più tristi. Ma per oltre due terzi il muro corre tra prati alberi e ruscelli e casette di periferia e fattorie in aperta campagna, e appare se possibile ancora più insensato.
Damen
In un ristorante svevo a Schöneberg si trova la toilette femminile più accogliente che io conosca. Alle pareti, piastrelle color prugna. Sanitari rosa collocati negli angoli, con un piccolo lavandino triangolare. Sapone, carta igienica, asciugamani di carta abbondantissimi. Poi salviette umide e un cestino con salvaslip in bustina. Alla parete, vicino alla porta, uno specchio con mensola; e sulla mensola, ogni ben di dio: fazzoletti, cotton fioc, forcine decorate e semplici, poi fondotinta, lacca per capelli e ben due tipi di crema idratante!
Memoria privata
sabato 26 febbraio 2011
Memoria civile
Berlino è una città con tanti scheletri nell’armadio.
La differenza con altri posti è che a Berlino gli armadi li aprono e provano magari a dare aria alle stanze, ma non è facile, bisognerà lasciare tutto aperto per un bel po’ prima che si possa di nuovo respirare. E intanto si vedono le ragnatele, la muffa, si sente odore di marcio e decomposizione.
Il muro non c’è più, rimane una lunga cicatrice. La fretta di costruire può aver indotto a credere che ci fosse una volontà di cancellare e di negare il passato. Forse per qualche tempo è stato vero; ma, ventidue anni dopo l’abbattimento del muro, non è questo che sta succedendo e non è questo che appare. Emergono invece i segni di una volontà diversa, di mostrare di più, di allestire qualcosa di più esplicito, di chiaro, di didattico, che aiuti a ricordare.
Fino a qui sarebbe facile: il muro è il simbolo della città, rappresenta ciò che la parte buona e positiva di Berlino è stata in grado di superare. Ma Berlino non si ferma qui. Berlino lavora per ricordare anche le proprie cattive azioni, il proprio lato oscuro. La Topografia del terrore è stata voluta dai cittadini, per mantenere traccia dei mostri. Mostri che sono “loro”, sono altri; ma che per un tedesco, un berlinese soprattutto, sono necessariamente, dolorosamente anche “noi”. Chi si occupava di eliminare gli zingari, gli ebrei, gli asociali, i malati: dopo, che fine hanno fatto, tutti? Ecco le foto di processi, ma anche di pensionati che innaffiano il giardino di casa, nonni con i nipoti, persone normali che sono normalmente tornate a vivere, magari con impieghi di riguardo nella nuova amministrazione democratica.
Poi basta attraversare il cortile di pietre scure, che sembrano ancora macerie; la cicatrice del muro; e la strada. Ed ecco il museo che espone l’archivio della StaSi, aperto appena un mese fa. StaSi: Sicurezza dello Stato. Berlino ha aperto l’archivio, ha letto, è rabbrividita: niente sarebbe stato più semplice che richiudere, negare, far sparire. Invece, ecco esposti i rapporti di ragazzi di 17 anni su loro compagni di scuola; riprese nascoste che mostrano momenti privati di persone qualunque, una coppia che passeggia, gruppetti di punk che stazionano a un incrocio, una segretaria cinquantenne al lavoro nel suo ufficio. Almeno una persona su cento era un informatore; di più in alcuni ambienti, come l’impiego pubblico. Nell’esercito si arrivava a un informatore ogni quattro soldati. Non sarebbe stato possibile processare tutti. Perciò tutti, o quasi tutti, fanno oggi la spesa negli stessi supermercati di chi un tempo osservavano.
Qualche chilometro di tram, ogni fermata annunciata e segnalata con cura, e intanto là fuori il centro diventa periferia, orientale. Si scende quando si è ormai quasi persa la speranza di arrivare. Restano da percorrere ancora alcuni isolati spogli, trascurati; in fondo alla strada, un muro. In mezzo al muro, un cancello. E dietro il cancello, la principale delle sedici prigioni della StaSi. Perché Berlino è capitale, e lo è sempre. Torture fisiche in ossequio alla tradizione staliniana. Dopo il 1953, ambienti accoglienti, metodi più umani: solo violenza psicologica. Chi accompagna i turisti a visitare celle e sale per gli interrogatori sono oggi ex prigionieri. Quelli che ne sono usciti con un equilibrio mentale sufficiente; gli altri, no.
Anche qui, sarebbe stato semplice chiudere il cancello e attendere che il tempo galantuomo passasse anche di qui. Come, di nuovo in centro, sarebbe stato semplice, e conveniente, costruire grattacieli o centri commerciali; invece, Berlino ha dedicato un intero isolato a due passi dalla Porta di Brandeburgo ai blocchi cupi del memoriale dell’Olocausto. Ha lasciato uno spazio vuoto dove un tempo sorgeva, e si inabissava nel terreno, il bunker di Hitler.
Berlin, Alexanderplatz
La fontana è circondata da centri commerciali. I turisti sono gli stessi, uguali i venditori ambulanti di bratwurst. Uguale anche il sole velato dalla cappa di smog che crea quella luminescenza quasi poetica, visibile atterrando di notte a Berlino.
E pure, ventidue anni non sono bastati a rendere le due Berlino confondibili tra loro. E’ rimasta qui una patina di paese socialista, e attraversare la città a bordo di un autobus permette di immergervisi poco alla volta. E gradualmente, lasciandosi alle spalle la grande antenna televisiva, i palazzi cominciano a somigliarsi l’un l’altro, tutti con le stesse finestre quadrate a distanze regolari, senza mai un balcone, senza mai niente di decorativo. Funzione. Funzione. Funzione abitativa. Omologazione degli abitanti, uguaglianza forzata, appiattimento del pensiero.
Palazzo piastrellato in toni rosa, arancio e salmone. Giardino alberato. Palazzo piastrellato di bianco con elementi verdi. Giardino alberato. Palazzo intonacato a fasce bianche e azzurre. Palazzo intonacato a fasce bianche e rosse. Palazzo intonacato a fasce bianche e ocra. Giardino alberato. Palazzo color sabbia e mattone. Giardino alberato. Complice la stagione, che rende brulli e poco invitanti i giardini, il paesaggio è desolato.
venerdì 25 febbraio 2011
Esterno, giorno
Avvicinare Berlino partendo da Potsdamerplatz disorienta. Si esce dalla terra, dalla U-bahn, ed ecco vetro, acciaio, forme audaci, spigoli vivi: troppi dettagli richiamano l’attenzione, i sensi sono attratti e distratti. Mancano i punti di riferimento, serve qualcosa da cui partire per prendere le misure.
Potsdamerplatz: tutto è nuovissimo, potrebbe essere l’ennesimo non-luogo costruito in mezzo al nulla; invece è un Luogo sovraccarico di storia. Piazza vivacissima, poi nulla. Ma proprio nulla, terra bruciata, tabula rasa. Annientamento della memoria. Il muro taglia a metà lo spazio vuoto, per qualche tempo un viadotto sospeso ne oscura la luce. Quindi, di nuovo vita: spazio bianco da reinventare. E allora su, verso l’alto – palazzi, audacia. E verso il basso, a popolare il sottosuolo a renderlo di nuovo percorribile, tra le due metà di una città orgogliosa.
Spaesamento. Bisogno di orientarsi e capire. Non per niente proprio qui hanno aperto il PanoramaPunkt: ventiquattro piani a una velocità inusitata, e tutto appare più chiaro. A nord: un palazzo trasparente, il reichstag, il memoriale dell’olocausto. Est: Leipzigplatz, una sorta di nordica Piazza esedra. Sud: uno sconfinato quartiere in costruzione, luccicante di sole gelido. A ovest ci si può affacciare soltanto dal Panorama Café, là si trova il centro culturale della città nuova, musei gallerie e la sede più recente della Biblioteca Nazionale.
giovedì 24 febbraio 2011
Interno berlinese
La Casa si trova in cima a una scala ripida con corrimani in ciliegio e teste di angeli e putti di gesso, da una parete pende un foglio stampato da un inquilino arrabbiato per qualcosa. La Casa ha pavimenti in legno chiaro, robusto, non lucidato; e soffitti alti e bianchi, decorati con cornici e rosoni di stucco. Dentro, tanti mobili Ikea e qualcosa dal mercatino delle pulci o comperato su ebay: proprio come diceva la guida turistica. Le finestre sono ampie, molto luminose, incorniciate da archi. Porte a doppia anta con architravi importanti in legno dipinto di bianco, come la carta da parati a leggero rilievo.
Dettagli, dettagli, dettagli…
Ma qui, sessant’anni fa, non c’era niente: tutto distrutto dai bombardamenti, i palazzi sopravvissuti si conoscono e si possono contare. E’ stato tutto ricostruito, e ricostruito così: non anonimi cubi di cemento, da realizzare in fretta e abitare subito, senz’anima. Ma Case, vere Case, fatte per viverci realmente, per sentirne il calore, perché siano accoglienti e vive.
Berlino è ua città ricostruita da qualcuno che ci ha voluto credere.Grazie a Paolo che ci ospita, e a Cristina.
Berlino, quella vera
Berlino è Paolo che ci aspetta sul binario alla diciottesima stazione, e una carrozza di metrò arredata come una vecchia Tabbert, dove mancano soltanto i centrini ricamati. Einstegen, bitte. Zurückbleiben, bitte. E’ una piazza gelida e ordinata, marciapiedi larghi, incroci pedonali e tavolini all’aperto come fosse estate. Tutto lindo e quieto, e altalene per bambini senza scritte a pennarello.
Berlino intermedia
C'è poi una Berlino più recente, cercata e voluta. E' la città delle ultime settimane, quella soprattutto degli ultimi giorni, quella del tempo passato a desiderarla e attenderla.
Berlino è ora una città di angeli, con una colonna altissima e sopra una vittoria angelica ed alata, a sorvegliarla. Berlino ha ora palazzi come grattacieli, il suo muro si è sdoppiato in due muri gemelli, con torrette di guardia e gendarmi e stivali che percorrono lo spazio vuoto nel mezzo.
Nella Berlino intermedia è comparsa una meravigliosa biblioteca, tutta scale in metallo bianco e scaffali a vista, luogo di raccoglimento e di pensiero.
Berlino è ora luogo di periferie recenti e confuse, mentre nel centro la musica esce da cantine e sottoscala, percorre d'estate le spiagge sulla Sprea. Tutto è più vivace, i colori più accesi, e la gente, tanta, ora ride. I bicchieri di birra sono più grandi, hanno schiuma più densa, e si accompagnano a grossi wurst pieni di senape. A volte c'è perfino il sole, in questa Berlino intermedia, e tante cose da fare. Si può salire su un autobus a due piani per esempio, e ascoltare qualcosa in un'auricolare che parla quattro lingue diverse. La Berlino intermedia somiglia di più ad altre capitali europee, offre una MuseumCard per visitare sessanta musei in tre giorni, un BerlinPass per prendere tutti i treni nelle zone A e B, perché Berlino ora ha delle zone A e B ma sono concentriche, e nessun muro le divide, anzi c'è anche una zona C dove si trova l'aeroporto dove atterrano i voli low-cost carichi di comprerà il BerlinPass e forse qualcuno anche la MuseumCard, ma pochi.
Nei musei della Berlino intermedia si trova di tutto. Una quantità di oggetti tolti a una Grecia troppo ricca di tesori, agli occhi degli ottocenteschi seguaci di Winckelmann. Poi un museo per la Shoah, uno per il currywurst, una galleria a ntica e una moderna, il bunker naturalmente, e ancora tanta e tanta e tanta e tanta architettura.... Poi anche altre cose, i tatuaggi, il tango... ma è difficile ricordare tutto, le guide turistiche (intese come libri) esistono apposta, e i siti internet, e per fortuna anche gli amici ospitali.
Berlino, prima di Berlino
Berlino prima di Berlino è un'immagine sfocata. A colori, ma sbiaditi, e pure luminosi. E' un luogo di trent'anni fa, percorso da molti giovani, di quei giovani veri di diciotto o vent'anni, non quegli stessi che oggi hanno superato la mezza età e si continua a chiamarli così. Quelli, che poi saremmo noi.
Berlino prima di Berlino è grigia e percorsa da ragazzi magri con pantaloni neri e orecchini dispari e spille da balia un poco ovunque; da ragazze molto truccate con i capelli molto biondi e cotonati, e un certo pessimo gusto diffuso, che non si sa se sia più dovuto ai tempi o al luogo.
Berlino prima di Berlino è anche una strada con poche macchine, vento che fa rotolare cartacce, e molto freddo.
Poi Berlino è anche un muro, alto più o meno così, molto colorato da una parte, dall'altra non so. Perché dall'altra parte del muro, non c'è niente. Case ancora più grigie, strade ancora più deserte, forse fa anche più freddo. Le poche macchine sono vecchie, sgraziate, rumorose. Uomini e donne sono pallidi e magri, e non ridono quasi mai. Questa Berlino che non c'è somiglia alla Polonia di Tarkovskij, e ci nevica spesso.
Ancora, Berlino prima di Berlino è una vecchia immagine con molto nero e molto rosso, e quando si fa sera si accende un fuoco. Scene confuse, affollate; sopra il muro un uomo, poi molti, e tanto rumore, e musica rock, e locali fumosi perché ancora si può fumare, e fumano in tanti, a Berlino, e anche di birra ne scorre parecchia. E nella Berlino prima di Berlino c'è o c'era uno zoo, o almeno una stazione della metropolitana che si chiama così.
Sotto il cielo velato di Berlino prima di Berlino ci sono anche immagini in bianco e nero, di altri 35 più vecchie. Fotogrammi incerti e tremanti, edifici in rovina e ancora nebbia, che forse è polvere o fumo, che sale dalle pietre dei palazzi crollati. Sotto, una povera umanità. E da qualche parte, chi sa dove, c'è un bunker, immagino una sorta di container di cemento, sepolto sotto terra.
Questa è Berlino prima di Berlino: iniziale, originaria, archetipica, sedimentata negli anni.
martedì 22 febbraio 2011
Il cielo sopra Berlino
Ti ricordi come una mattina il vivere, l'essere a nostra immagine da tanto tempo atteso, è uscito dalla savana, l'erba incollata alla fronte? E come la sua prima parola fosse un grido? Disse "ah!"; o "aaah!"; oppure "oh!". O fu semplicemente un gemito. Di quest'uomo abbiamo potuto ridere, finalmente: per la prima volta. E dal suo grido, e dal modo con cui chiamava i suoi successori, abbiamo imparato a parlare.
Una lunga storia: il sole, i lampi, il tuono su nel cielo, e sotto, sulla terra, i falò, i salti in aria, le danze circolari, i segni, la scrittura. Poi all'improvviso uno uscì dal cerchio: si mise a correre dritto, e intanto che correva sempre dritto (curvando, qualche volta, per baldanza) sembrò libero. E noi allora potemmo ridere con lui. Ma poi cambiò di colpo: si mise a correre a zig zag, le pietre volavano... Con la sua fuga iniziava un'altra storia: la storia delle guerre, che ancora dura. Ma anche la prima, quella dell'erba, del sole, dei salti in aria e delle grida, dura ancora... [Damiel]
Stupore. Stupore grande è scoprire che questo bellissimo poetico film - con i monologhi lucidi e sospesi di Peter Handke, con le riflessioni sull'umanità e la sensazione, sulla finitezza e la realtà, con tante tante scene nella grande biblioteca, tra il brusio sommesso del pensiero di chi studia (quante volte l'ho sentito! quante volte sono entrata in biblioteca per goderne, per sapere di farne parte!)... - che questo film è stato girato per intero senza il sostegno della parola scritta. Senza un copione.
Quanta fiducia nell'umanità dell'uomo, nella sua capacità di creare e di essere. Quale bellissimo esempio di follia, nell'affidarsi a se stessi senza la pretesa di potersi bastare.
Poi c'è Berlino; e per le sale da ballo demolite, per le strade e le piazze e i muri che non esistono più, per i nuovi centri commerciali e l'anima antica, rimane ancora tanta curiosità.
Una lunga storia: il sole, i lampi, il tuono su nel cielo, e sotto, sulla terra, i falò, i salti in aria, le danze circolari, i segni, la scrittura. Poi all'improvviso uno uscì dal cerchio: si mise a correre dritto, e intanto che correva sempre dritto (curvando, qualche volta, per baldanza) sembrò libero. E noi allora potemmo ridere con lui. Ma poi cambiò di colpo: si mise a correre a zig zag, le pietre volavano... Con la sua fuga iniziava un'altra storia: la storia delle guerre, che ancora dura. Ma anche la prima, quella dell'erba, del sole, dei salti in aria e delle grida, dura ancora... [Damiel]
Stupore. Stupore grande è scoprire che questo bellissimo poetico film - con i monologhi lucidi e sospesi di Peter Handke, con le riflessioni sull'umanità e la sensazione, sulla finitezza e la realtà, con tante tante scene nella grande biblioteca, tra il brusio sommesso del pensiero di chi studia (quante volte l'ho sentito! quante volte sono entrata in biblioteca per goderne, per sapere di farne parte!)... - che questo film è stato girato per intero senza il sostegno della parola scritta. Senza un copione.
Quanta fiducia nell'umanità dell'uomo, nella sua capacità di creare e di essere. Quale bellissimo esempio di follia, nell'affidarsi a se stessi senza la pretesa di potersi bastare.
Poi c'è Berlino; e per le sale da ballo demolite, per le strade e le piazze e i muri che non esistono più, per i nuovi centri commerciali e l'anima antica, rimane ancora tanta curiosità.
domenica 20 febbraio 2011
Nell'abbraccio del tango
Lo stile scolastico di Elisabetta Muraca non incoraggia la lettura: l'introduzione induce ad attendersi di leggere un trattatello di psicologia del tango; la trascrizione letterale di conversazioni email e interviste, compresi saluti e reciproci rituali complimenti, ha qualcosa di ingenuo e di indiscreto; e troppe volte l'autrice cita se stessa, vezzo discutibile anche nel caso di grandi autori. Il libro prende quota lentamente, dai capitoli iniziali decisamente faticosi agi ultimi, più sciolti e scorrevoli.
"Nell'abbraccio del tango" sembra soffrire di un'identità incerta: non è un manuale di psicologia, non è un testo letterario né ha nulla di poetico; ma per chi conosce ancora poco il tango, i capitoli centrali -Dove? Chi? Come?- sono un buon manuale di istruzioni per avvicinarsi alla milonga portena e ai suoi codici, ancora poco noti e niente affatto in uso in Italia. Piacevoli sono anche i ritratti di qualche vecchio milonguero; e la trascrizione dei testi di alcuni classici, con traduzione a fronte.
Molto interessante il paragrafo intitolato "Il tango è maschilista?", che affronta brevemente una domanda che ricorre fuori e dentro le milonghe (soprattutto fuori), proponendo una risposta originale, in chiave politeista.
Conclusa la lettura, estirpato con l'ultimo capitolo ogni residuo desiderio di tango nuevo, rimane su tutte una frase: Per fortuna c'è sempre un tango in cui nascondersi... [p.152]
mercoledì 16 febbraio 2011
Retrotàngo
Questa è una parola che ancora non esiste.
O meglio: ormai tutto esiste, perciò quasi certamente qualcuno ne avrà già fatto uso. Se non sbaglio, Retro Tango è anche il nome di un gruppo di tango nuevo di Montevideo. E poi c'è il Tango rétro, un po' il contrario del tango nuevo...
Ma Retrotàngo è per me una parola tutta nuova, inventata da un certo amico lettore che cerca di capire cosa ci sia "dietro" il tango: cosa pensi, cosa legga soprattutto, magari poi perfino come viva chi, quando si fa sera o notte, desidera cerca e anela a una milonga.
Retrotàngo mi sembra una bella idea, e una bellissima parola. Quadrisillaba, piana; come la prima parte di una base, l'inizio del primo tango della tanda, quando ci si avvicina, si comincia appena a conoscersi, si prendono le misure. Retro: all'indietro, come quasi tutti i passi della donna. E anche un po' rétro, come un buon tango milonguero, abbraccio stretto, ascolto di respiri, leggermente fuori moda come El Choclo in una versione del 1929, appena più ritmato di quanto ci si aspetterebbe.
O meglio: ormai tutto esiste, perciò quasi certamente qualcuno ne avrà già fatto uso. Se non sbaglio, Retro Tango è anche il nome di un gruppo di tango nuevo di Montevideo. E poi c'è il Tango rétro, un po' il contrario del tango nuevo...
Ma Retrotàngo è per me una parola tutta nuova, inventata da un certo amico lettore che cerca di capire cosa ci sia "dietro" il tango: cosa pensi, cosa legga soprattutto, magari poi perfino come viva chi, quando si fa sera o notte, desidera cerca e anela a una milonga.
Retrotàngo mi sembra una bella idea, e una bellissima parola. Quadrisillaba, piana; come la prima parte di una base, l'inizio del primo tango della tanda, quando ci si avvicina, si comincia appena a conoscersi, si prendono le misure. Retro: all'indietro, come quasi tutti i passi della donna. E anche un po' rétro, come un buon tango milonguero, abbraccio stretto, ascolto di respiri, leggermente fuori moda come El Choclo in una versione del 1929, appena più ritmato di quanto ci si aspetterebbe.
sabato 12 febbraio 2011
I Malcontenti
93. E concludevano, quei critici, dicendo, più o meno: Non sarebbe ora, c'è stata anche la rivoluzione, non sarebbe ora di smetterla, con questa letteratura di finzione, non sarebbe ora di smetterla, con tutti questi Tarzan, non sarebbe ora di smetterla, con queste trame rotonde con i colpi di scena che te li aspetti fin da prima di prendere il libro i mano? Non sarebbe il caso di provare a fare uscire le trame della vita? Non sarebbe meglio provare a percorrere la strada dei fatti? Non sarebbe bene osservare i fatti? E poi raccontarli così come son stati? Non sarebbe il caso che la trama descriva la vita, e che quelli che scrivono si limitino a raccontare?
94. Questo, più o meno, dicevano i critici russi, o meglio, sovietici, ala fine degli anni venti del secolo scorso, e va bene, e io per molto tempo ho perfino pensato che quella, sicuro, era la strada.
Però adesso che devo raccontar questa storia di fatti, perché effettivamente, non c'è niente da fare, le cose sono andate esattamente così, adesso che devo raccontare questa storia di fatti, i dubbi mi vengono.
Eh, già. La vita da raccontare. Facile, no? I fatti si danno, lo scrittore li descrive. E invece no, i fatti sono fatti e anche il racconto più fedele è interpretazione e richiede arte: bisogna scegliere un punto di vista, uno stile, un genere, scartare una grande quantità di fatti decidendo che sono minori, o irrilevanti ai fini di, e poi è necessario scegliere quelli importanti, metterli in ordine, concatenarli... e scegliere le parole, una per una, tutte senza eccezioni, e le virgole, e i punti e i puntievirgola...
Insomma: il realismo non esiste, la letteratura è altro. E siamo d'accordo. Peccato però che, per cantare la letteratura-che-narra-la-vita-ma-vita-non-è, Nori utilizzi lo stile colloquiale, spezzato, divagante così caratteristico e suo, perfetto per il blog, ma che purtroppo non riesce altrettanto bene sulla pagina.
Lettura guastata anche dal fatto che, alla mia copia del romanzo, mancano le pagine da 65 a 76. Peccato, si.
Sono un po' delusa.
O forse non ho capito?
94. Questo, più o meno, dicevano i critici russi, o meglio, sovietici, ala fine degli anni venti del secolo scorso, e va bene, e io per molto tempo ho perfino pensato che quella, sicuro, era la strada.
Però adesso che devo raccontar questa storia di fatti, perché effettivamente, non c'è niente da fare, le cose sono andate esattamente così, adesso che devo raccontare questa storia di fatti, i dubbi mi vengono.
Eh, già. La vita da raccontare. Facile, no? I fatti si danno, lo scrittore li descrive. E invece no, i fatti sono fatti e anche il racconto più fedele è interpretazione e richiede arte: bisogna scegliere un punto di vista, uno stile, un genere, scartare una grande quantità di fatti decidendo che sono minori, o irrilevanti ai fini di, e poi è necessario scegliere quelli importanti, metterli in ordine, concatenarli... e scegliere le parole, una per una, tutte senza eccezioni, e le virgole, e i punti e i puntievirgola...
Insomma: il realismo non esiste, la letteratura è altro. E siamo d'accordo. Peccato però che, per cantare la letteratura-che-narra-la-vita-ma-vita-non-è, Nori utilizzi lo stile colloquiale, spezzato, divagante così caratteristico e suo, perfetto per il blog, ma che purtroppo non riesce altrettanto bene sulla pagina.
Lettura guastata anche dal fatto che, alla mia copia del romanzo, mancano le pagine da 65 a 76. Peccato, si.
Sono un po' delusa.
O forse non ho capito?
domenica 6 febbraio 2011
Atlante del Mondo interiore
Buenos Aires café
Cosa ci si aspetta da un libro fotografico intitolato "I caffè di Buenos Aires"? Evidentemente, delle foto dei caffè di Buenos Aires: vecchi tavoli con vecchie bottiglie, tazze usate, specchi consunti, sigarette di personaggi pensosi e assorti, e poi naturalmente tacchi, gambe, schiene nude, giovani donne abbracciate da uomini rugosi. Poi magari un po' di contesto, strade e palazzi scalcinati, qualcosa su Plaza de Mayo, improbabili botteghe.
Bene: c'è tutto. Le foto sono belle, sporche al punto giusto, ben impaginate, ottima carta non troppo lucida non troppo opaca, insomma davvero tutto a posto.
Bene: c'è tutto. Le foto sono belle, sporche al punto giusto, ben impaginate, ottima carta non troppo lucida non troppo opaca, insomma davvero tutto a posto.
Poi, ci sono i testi. E qui davvero qualcosa sfugge. Pagine e pagine di diario di viaggio che non decolla, appunti personali poco o punto rielaborati, il testo non riesce a diventare interessante, a superare quanto meno l'interesse affettivo e di memoria personale che hanno tutti gli appunti di tutti i viaggi di tutti noi.
I racconti presentano degli spunti poetici; ma anche qui, è come se non riuscissero a svilupparsi, a diventare magici, o a diventare politici; rimangono abbozzi con un senso di provvisorio e di già visto.
I racconti presentano degli spunti poetici; ma anche qui, è come se non riuscissero a svilupparsi, a diventare magici, o a diventare politici; rimangono abbozzi con un senso di provvisorio e di già visto.
Peccato.
mercoledì 2 febbraio 2011
Coriandolizzazione
Questa parola l'ho sentita pronunciare a proposito delle tante, troppe sedi di Università, e dei troppi Atenei aperti in pochi anni. "Coriandolizzazione dell'offerta", ho sentito.
L'ennesima parola superflua.
Però almeno suona bene, evoca atmosfere carnascialesche, non troppo fuori luogo oggi, che all'Università si chiede di vivere d'aria e di amore (amore per il lavoro, preferibilmente precario); a meno che, come un paio di regioni del nord, non si riesca a beneficiare dei fondi extra, a diretta disposizione del Ministro.
Poi, tra cinque o dieci anni, qualcuno ci verrà a dire che anche all'Università il nord trascina il resto d'Italia, che invece è così, coriandolizzata...
L'ennesima parola superflua.
Però almeno suona bene, evoca atmosfere carnascialesche, non troppo fuori luogo oggi, che all'Università si chiede di vivere d'aria e di amore (amore per il lavoro, preferibilmente precario); a meno che, come un paio di regioni del nord, non si riesca a beneficiare dei fondi extra, a diretta disposizione del Ministro.
Poi, tra cinque o dieci anni, qualcuno ci verrà a dire che anche all'Università il nord trascina il resto d'Italia, che invece è così, coriandolizzata...
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